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Tutto è portare a termine e poi generare.
Lasciar compiersi ogni impressione e
ogni germe d’un sentimento dentro di sé,
nel buio, nell’indicibile, nell’inconscio
irraggiungibile alla propria ragione, e
attendere con profonda umiltà e pazienza
l’ora del parto d’una nuova chiarezza:
questo solo si chiama vivere da artista:
nel comprender come nel creare.
Qui non si misura il tempo, qui non vale
alcun termine e dieci anni son nulla.
Essere artisti vuol dire: non calcolare e
contare; maturare come l’albero, che non
incalza i suoi succhi e sta sereno nelle
tempeste di primavera senz’apprensione
che l’estate non possa venire. Ché l’estate
viene. Ma viene solo ai pazienti, che
attendono e stanno come se l’eternità
giacesse avanti a loro, tanto sono
tranquilli e vasti e sgombri d’ogni ansia.
Io l’imparo ogni giorno, l’imparo tra i
dolori, cui sono riconoscente: pazienza è
tutto!
OTTOBRE 2024
VA’ SENTIERO: camminare, scoprire, condividere
Intervista a Sara Furlanetto e Yuri Basilicó
EDITORIALE
Tutti i dirirtti riservati
Chandra Livia Candiani
n°2
Antonio Romani
Sara Sampietro
Alessandro Sancino
Gabriele Segre
Silvia Vivaldi
SEGNALI DI BELLEZZA
GENERAZIONI
Questa sezione è proposta in collaborazione con
Fondazione Italia Patria della Bellezza
di Ugo Morelli
Leggi
SEGNALI DI BELLEZZA
Fondazione GiGroupstrategie e iniziative per superare le disparità di genere per un futuro del Lavoro Sostenibile
LA LEADERSHIP GENERATIVA
ovvero una prospettiva sul potere di generare libertà e responsabilità nelle organizzazioni contemporanee
On! Impresa Sociale
di Gabriele Segre
di Alessandro Sancino
ECOSISTEMA
ACCETTARE IL CONFLITTO
G. Segre
PENSIERO
WILL MEDIA: UN’INFORMAZIONE GIOVANE PER SCOPRIRE IL MONDO
Will Media propone un “attivismo delle idee” per avvicinare le nuove generazioni
G. Checchin
La leadership Generativaovvero una prospettiva sul potere di generare libertà e responsabilità nelle organizzazioni contemporanee
QUESTION TIME
GENERAZIONI
di On! Impresa Sociale
LA VITA COMINCIA OGNI GIORNO
Riflessioni sulla generatività sociale e il potere trasformativo dell’inquietudine organizzativa
P. Cappelletti
FONDAZIONE GiGroup
strategie e iniziative per superare le disparità di genere per un futuro del Lavoro Sostenibile
Fondazione Gi Group
TECNOLOGIA E GENERATIVITÀ SOCIALE
Il pensiero tecno-ottimista di Peter Bloom
A. Rizzo, A. Sancino
ECOSISTEMA
realizzati con il supporto di
Uno scatto tratto dalla sezione Segnali di Bellezza
VIE
LABORATORIO DI MANAGEMENT GENERATIVO
INTERNAZIONALE
LABORATORIO è la sezione dei Quaderni Genialis dedicati alle organizzazioni incontrate nel Laboratorio di Management Generativo.Destinato a figure apicali nelle organizzazioni, il LMG è un luogo di confronto e di ideazione collettiva ispirata dalla generatività sociale, in vista di sperimentazioni concrete nelle organizzazioni. Il LMG intende stimolare lo sviluppo di nuovi modelli di pensiero e di azione manageriali generativi di un “di più” di valore e accompagnare sperimentazioni trasformative dei contesti, nell’intreccio tra riflessione e formazione, dimensione teorica e pratica.
LECHLER
La cultura del colore
P. Cappelletti, R. Della Valle
web project & design Sch! Studio
in copertina
QUESTION TIME
Pensare oltre, pensare l'inedito
Coordinamento Scientifico:
Prof. Mauro Magatti, Dott.ssa PhD Patrizia Cappelletti
LabMG
La vita comincia ogni giornoRiflessioni sulla Generatività Sociale e il potere trasformativo dell’inquietudine organizzativa
edizione n.2 - Ottobre 2024
PENSARE OLTRE, PENSARE L’INEDITO
U. Morelli
INTERNAZIONALE
di Patrizia Cappelletti
Accettare il conflitto
Will Media un'informazione giovane per scoprire il mondoi
Hanno collaborato a questo numero:
Yuri Basilicó
Giacomo Checchin
Sara Furlanetto
Ugo Morelli
Giovanni Petrini
Angela Rizzo
Va' Sentiero:camminare, scoprire, condividereINTERVISTA a Sara Furlanetto e Yuri Basilicó
I Quaderni Genialis sono un progetto di
Tecnologia e Generatività Sociale
Il pensiero tecno-ottimista di Peter Bloom
LECHLER
La cultura del colore
PENSIERO
VIE
La vita nuova
arriva taciturna
dentro la vecchia vita
arriva come una morte
uno schianto
qualcuno che spintona così forte
un crollo.
È una scrittura tanto precisa
e netta da non lasciare dubbi
né sfumature di senso eppure
non dà direzioni né mete.
La vita nuova irrompe
come un vecchio che cade
sul ghiaccio, un pensiero
davanti a un muro, la
sirena di un’ambulanza.
Non ci sono feriti
né annunci di sciagura
solo noi da convincere
a lasciar perdere il miraggio
di una via rettilinea, di un
orizzonte, lasciarsi curvare,
piegare alla tenerezza
delle anse del destino.
La vita nuova
è come un grande tuono
sbriciolato
poi a poco a poco
l’erba si china
sotto la pioggia
la prende
la beve.
di Giacomo Checchin
EDITORIALE
Fondazione GuiGroup
On! Trasformazioni Generative
Carlotta Toscano
Riccardo Della Valle
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edizione #2 Ottobre 2024
Appunti
per organizzazioni
inquiete
L'ultima edizione dei Quaderni Genialis è riservata ai Soci aderenti a Genialis.
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Ogni Quaderno verrà reso pubblico a distanza di sei mesi dalla data di pubblicazione.
ECOSISTEMA
INTERNAZIONALE
VIE
GENERAZIONI
SEGNALI DI BELLEZZA
#1
QG#1
LMG
VIE
GENERAZIONI
ECOSISTEMA
SEGNALI DI BELLEZZA
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Hanno collaborato a questo numero:
Gian Luca Beneventi
Giacomo Checchin
Elena Granata
edizione n.1 - Maggio 2024
Andrea Furegato
Alessandro Sancino
Irene Valenti
È.one abitarègenerativo
Carlotta Toscano
Riccardo Della Valle
Irene Valenti
È.one abitarègenerativo
Carlotta Toscano
Riccardo Della Valle
I Quaderni Genialis
sono un progetto di
Hanno collaborato a questo numero:
Gian Luca Beneventi
Giacomo Checchin
Elena Granata
Andrea Furegato
Alessandro Sancino
La vita comincia ogni giornoRiflessioni sulla generatività sociale e il potere trasformativo dell'inquietudine organizzativa
"La vita comincia ogni giorno”, così scriveva il poeta Rainer Maria Rilke in uno dei suoi meravigliosi carteggi. Una frase che può aiutarci a marcare la soglia di quell’universo di discorso che chiamiamo generatività sociale. Un passo che, come persone e organizzazioni, siamo invitati con sempre maggiore urgenza a compiere.
Ma ritorniamo a Rilke. “La vita comincia”, ci ricorda.
Nuovamente, cosa potrebbe significare per una organizzazione, per una impresa, che “la vita comincia”?
In primo luogo, potremmo intendere queste parole come un invito ad allargare lo sguardo ed uscire dalle logiche autoreferenziali che continuano a restare prioritarie, quando non esclusive, negli obiettivi e negli intenti delle organizzazioni. Si tratterebbe di guardare alla struttura che connette/ci connette e che rende possibile (sostenibile) la nostra vita e quella altrui. Concretamente la vita del creato, l’ambiente e le sue risorse, ma anche la vita delle persone che abitano l’organizzazione e si spendono per essa; di coloro che sono parte vitale delle filiere del valore; dei diversi stakeholder; dei territori e le istituzioni; delle scuole e delle università; delle nuove generazioni. Il cominciare della Vita è, infatti, plurale.
EDITORIALE
Ogni giorno comincia la vita. Anche nelle nostre organizzazioni.
Dove sarà la novità dell’oggi? Saremo capaci di sguardi raffinati per cogliere l’inatteso e l’inedito, l’imprevedibile, oltre la routine, le procedure, la ripetizione?
Le parole di Rilke suonano da monito a non trattare ogni giorno come una replica, uno schema già scritto. A non soffocare quel genio che ha modellato l’impresa italiana.
Se la vita comincia ogni giorno, non possiamo non dare valore ad ogni giorno e ad ogni iniziare, anche quello più anonimo. La vita sottrae ogni giorno alla forza dell’ovvietà per restituirlo alla capacità creativa di ognuno di farne un qualcosa di bello - perché no? - un capolavoro.
Siamo tutti artisti che si giocano un margine di libertà nel marmo del tempo.
Se rimettiamo insieme la frase, l’invito ci arriva con impressionante potenza.
La vita comincia ogni giorno.
È possibile adottare questa frase come criterio del ben essere e ben fare della nostra vita organizzativa? Potrebbe essere questo il cuore pulsante di un’alleanza nuova attorno ad un nuovo vivere organizzativo?
È in fondo questo che ci racconta la Generatività sociale e la direzione in cui si muovono le proposte di Genialis che stanno attirando l’interesse di realtà molto particolari nel panorama delle organizzazioni.
Qualcuno di noi, con una felice intuizione, le ha chiamate "inquiete”. Sono così le organizzazioni che cerchiamo quali compagne di viaggio.
Organizzazioni insonni, che non si accontentano, e si rigirano nel letto, la notte, alla ricerca di qualcosa di più.
Organizzazioni, recalcitranti all’ovvietà dei binari lungo i quali il divenire è spinto.
L’inquietudine, allora, ci appare la sana postura delle organizzazioni contemporanee.
Non movimento per il movimento, dunque. Bensì la non-quiete come possibilità di vedere il cominciare quotidiano della vita e di accompagnarlo.
Se la “quiete” è fatta di regole, standard omologanti, routine rassicuranti, procedure spersonalizzanti, indicazioni decontestualizzate, intelligenze esclusivamente artificiali, valori binari, geometrie invariabili, scritture dentro i margini e le righe, l’inquietudine è ricerca di vie di fuga, cioè di nuove modalità per iniziare un nuovo giorno.
Rilke ci ha aiutato a trovare una bella definizione.
Forse le organizzazioni inquiete sono quelle che ci stanno provando ad arginare sempre più la non-vita; quelle in cui ancora si pensa, dialoga, investe, lavora, costruisce affinché la vita possa cominciare davvero, per tutti, ogni giorno.
È una frase dal potenziale trasformativo e in qualche misura sovversivo, quella di Rilke. Per questo possiamo prenderla a prestito come sottotitolo del progetto Genialis per raccontare, ancora una volta, partendo da un'altra prospettiva, quello che abbiamo in mente e che, insieme a tanti di voi, stiamo cercando di di-segnare. C’è, infatti, in questo progetto, l’ambizione di lasciare un qualche segno sulla tavola del mondo contemporaneo, così ricco di sfide ma anche di possibilità. Le lectures, gli appuntamenti online, le sperimentazioni del Laboratorio, i Quaderni di Genialis vanno in questa direzione. Ce la faremo?
“La vita comincia ogni giorno”
Cosa potrebbe voler dire, per una organizzazione, questa attestazione di fede nella vita del poeta?
È forse possibile sottolineare almeno tre aspetti.
Infine - è il terzo rilievo - Rilke aggiunge un’ultima pennellata al suo quadro. Ci mette accanto un “ogni giorno” apparentemente banale ma che ci aiuta a capire di più la logica (se di logica si può parlare) della Vita.
Fedelmente, con irrazionale testardaggine, nonostante noi e i nostri limiti, la vita accade ogni giorno.
Nella frase di Rilke c’è una promessa quotidiana: qualcosa che non può suscitare stupore e senso del miracolo. La vita comincia ogni giorno, ci aspetta, puntuale, con nuove possibilità per poter ricominciare anche noi, insieme a lei.
Ogni giorno, senza mancare mai all’appuntamento, la vita comincia.
C’è un che di inspiegabile ed eccedente in tutto questo, a meno di scegliere di restare nel cono d’ombra dell’indifferenza o del cinismo, accontentandosi di vivere a testa bassa a correre sui rulli.
In secondo luogo, affermare che “la vita comincia” può aiutarci a contenere il nostro tendenziale senso di (onni)potenza. Se questa spinta espressiva e realizzativa è a suo modo vitale e motore della crescita, essa ha finito per ribaltarsi in una trappola, dilatando a dismisura l’Io e la sua azione sul mondo. Non è un caso se l’aumento della potenza - facilitata dalla tecnologia e oggi dal digitale –finisce per smarrire il senso e la misura, mettendo “a servizio” le persone in una crescita che appare s-proporzionata e dis-umana.
Affermare che la Vita comincia, e non noi, ci aiuterebbe - come impresa - a ritrovare un baricentro.
La vita – sembra dirci Rilke - comincia anche senza di noi, anche prima di noi.
È una prospettiva che tendiamo a dimenticare, ma che, se recuperata, può aprire la possibilità di vedere la vita per quella che è: un accadere gratuito ed eccedente a cui è impossibile rispondere contabilmente, con uno scambio orizzontale e equivalente.
Liberati da un debito, come ricordava Godbout, ci ritroviamo però ad essere corresponsabili della Vita tout court attraverso altre forme di contribuzione. Detto altrimenti: non potendo ripagare all’indietro, non ci resta che condividere in avanti, con altri, per altri e il futuro.
Ciò richiama una dimensione trascendente che fatichiamo a tenere aperta oggi, schiacciati come siamo dalla forza centripeta della contemporaneità sul solo istante. Attratti dalle tante calamite - contingenze, impegni, scadenze, KPI – nelle organizzazioni il rischio è quello di vivere solo nel brevissimo termine come unico orizzonte possibile.
Servirebbe una buona dose di umiltà organizzativa (umiltà rimanda ad humus cioè alla terra) per capire che la Vita comincia.
Ma non è questa, forse, la strada per una sostenibilità autentica, non di facciata?
di Patrizia Cappelletti
Sono ricercatrice sociale presso il Centro di Ricerca ARC dell’Università Cattolica di Milano, dove da anni mi occupo di generatività sociale nelle organizzazioni. Svolgo attività di formazione e consulenza per soggetti pubblici e privati.
Il primo prende spunto dalla parola “vita”, tema fondamentale nella prospettiva della generatività sociale, il paradigma attorno al quale da anni stiamo circumnavigando. Cosa è vita, oggi, cosa resta della vita, e, per converso, cosa “vita non è”. Come potrebbe suggerirci Italo Calvino con la sua straordinaria capacità di cogliere il punto, nelle organizzazioni “cosa vita non è” finisce per scadere facilmente in un “inferno” luogo dell’invivibilità assoluta, e, dunque di una qualche “morte”. Illuminare quella vita vivente, nominarla, prendercene cura, sporcandosi le menti e le mani, provare a sciogliere i nodi che la soffocano e trasformare gli spazi organizzativi in luoghi di nuova vita: è forse questo, in estrema sintesi, l’intento di Genialis. Oggi nelle organizzazioni restano tante zone d’ombra ereditate dal passato alle quali, purtroppo, si aggiungono le nuove, portato dalle trasformazioni epocali in atto. Cosa può significare la pervasiva digitalizzazione sulla vita lavorativa, sul suo senso, sulla sua qualità e perfino sulla sua dignità? O la crescente mobilità? O, ancora, l’accelerazione continua dei ritmi di lavoro e di vita? Nel provare a capire un po’ di più la vita – e, nello specifico, della vita organizzativa e sociale – desideriamo comprendere, insieme, come restarle fedeli, rispettandone consapevolmente e convintamente le premesse relazionali. L’editoriale del primo numero di Genialis – a cui rimandiamo - ha voluto fare una prima sintesi delle riflessioni e dei ragionamenti sviluppati fino ad oggi e condivisi da molti. Si tratta di ancoraggi importanti dai quali partire per sviluppare nuove piste di ricerca, di formazione e di sperimentazione per coniugare insieme funzioni e senso nelle organizzazioni.
EDITORIALE
Una seconda riflessione riguarda il verbo “cominciare”. Se la Vita è certamente relazione di interdipendenza con tutti e tutto, essa è anche movimento incessante, eccedente e sorprendente. Parliamo di un verbo centrale nelle dinamiche della Generatività sociale: è quel “mettere al mondo” che racconta visivamente – insieme a “desiderare”, “prendersi cura” e “lasciar andare” - il dinamismo creativo, generoso, fertile che è la Vita. Un dinamismo che siamo tutti richiamati a replicare in sempre nuove, originali forme, come persone, organizzazioni e società. La vita è in sé intrapresa, a pensarci bene, e noi siamo nati per incominciare, sintetizzava Hanna Arendt. Ma quale movimento e quale direzione imprimere al cominciare? Edgar Morin sintetizza con grande efficacia il dilemma che attraversa ogni esistenza, anche la nostra, anche quella delle nostre organizzazioni: la vita quando non genera, inevitabilmente degenera. È una riflessione interessante che ci interpella tanto a livello personale ed esistenziale, quanto a livello organizzativo e manageriale. Cominciare cosa, infatti? E come? E per chi? Ma soprattutto: perché? È evidente che oggi non basta crescere. Oggi siamo chiamati ad accompagnare una crescita non distruttiva che faccia della cura il suo criterio e la sua legittimità (Giaccardi e Magatti, 2024). La direzione conta, eccome.
In questi anni come LECHLER avete incrociato l’idea di Generatività Sociale. Cosa vi ha attratto/vi attrae di questa proposta e come ha risuonato rispetto alla vostra idea di impresa?
Laboratorio di
MANAGEMENT GENERATIVO
Anche voi avete aderito al network Genialis, il nuovo spazio di ricerca, formazione e sperimentazione nato dal percorso compiuto in questi anni attorno alla generatività sociale. Genialis si propone di raccogliere quelle organizzazioni che, nella pluralità di obiettivi e forme di generazione del valore, desiderano amplificare il movimento generativo che è un processo che parte dalla capacità di desiderare di fare esistere qualcosa che prima non c’era, di metterla al mondo e di prendersene cura. È un movimento che richiama fortemente l’azione imprenditoriale, capace di immaginare, mobilitare e orchestrare i fattori necessari alla realizzazione della stessa. Con questo in mente, e considerando le transizioni in atto che impattano significativamente anche sul nostro Paese, qual è – o potrebbe essere – il ruolo dell’impresa italiana? E cosa potrebbe fare, secondo voi, il nuovo network di Genialis?
LUCIANO
VALLI
Per necessità costruttive siamo partiti dai “Giardini del Village”. Quello che di solito è un completamento progettuale è diventato il principio. Un inizio armonioso, un connubio con la natura, uno spazio per le relazioni. Nei Giardini del Village troviamo il “Bistrot Le Déjeuner sur l’herbe”, immerso nel verde e circondato da vegetazione autoctona. E un elemento più glamour come il “Glossy Bar”.
È un progetto che rientra a pieno titolo nella strategia a medio e lungo termine della prospettiva sostenibile e responsabilità sociale.
Quello che possiamo osservare è l’entusiasmo di chi ci viene a trovare: clienti, fornitori, partner sono colpiti e ispirati da ciò che vedono.
Nel 2022 abbiamo lanciato circa 20 progetti sulla sostenibilità, condivisi con tutta la community. Da quegli incontri è nato il gruppo “Ess&re”, costituito da persone della community particolarmente sensibili al tema della sostenibilità, che si è impegnato ad agire in prima persona.
In particolare, un gruppo di dipendenti si è interrogato sull'utilizzo degli spazi comuni.
Ciò ha generato una serie di idee – sia per l'interno degli edifici che per l'area esterna – attualmente in fase di esame per capirne fattibilità e realizzazione. Inoltre, è stata creata un’Academy per attrarre e formare talenti. Un’opportunità per i giovani, che ha permesso di far conoscere meglio Lechler alle Scuole e alle Università sul territorio, e dare possibilità alle nuove generazioni di far parte della nostra realtà, ampliare conoscenze ed esperienze.
È in quest’alveo che community interna ed esterna si incontrano e si confrontano, come accadeva un tempo nel villaggio.
Quest’approccio dà corpo all’idea che non sia un progetto fatto e finito ma, appunto, un’idea generativa, un processo in continua evoluzione.
La mission di Lechler “The culture of color” è una unique value proposition che ha sia un valore estetico che etico: promuovere la cultura del colore per la vita di ciascuno, imparare a usare il colore per produrre bellezza e armonia.
L’uomo dovrebbe integrarsi nell’ambiente naturale con il suo mondo fatto di manufatti e superfici: in tal senso la vernice, con la propria capacità di caratterizzare oggetti e materiali da un punto di vista estetico, è naturalmente uno strumento ideale per la creazione dell’armonia ricercata tramite il colore e gli effetti. Così come la natura è colorata e l’armonizzazione dei colori in natura è perfetta, l’uomo dovrebbe integrarsi organicamente a essa: colore ed effetto, non solo forma. È da questa mission che nasce Color Design, il progetto di Lechler che lega lo sviluppo della chimica con l’evoluzione del linguaggio del colore.
Il Lechler Village nasce come una rappresentazione evocativa del progetto Color Design – forme, materiali armonizzati da colori ed effetti – e del modo di essere impresa di Lechler: per prendersi cura del futuro insieme, per noi e per chi verrà dopo di noi.
A che punto è oggi il Lechler Village e cosa significa per voi?
Come è stato accolto questo progetto al vostro interno, tra le vostre persone, e all’esterno, dai vostri stakeholder, dal territorio di cui siete parte e dalle istituzioni? Rispetto all’idea trasformativa e di cambiamento che vi ha spinto, sta cambiando quella relazione sulla quale volevate insistere? Cosa state osservando al riguardo?
Nel Laboratorio di Management Generativo avete portato un tema originale: la ricerca di una nuova e più feconda relazione tra la dimensione prettamente industriale, materica – il prodotto “vernice” nella sua consistenza tridimensionale – e quella estetica che dà forma ed espressione al “colore”. Una questione da voi già pensata e anche in parte già agita, che ha portato alla nascita di un nuovo claim – “Color Design – Il colore diventa design” – ma anche, più profondamente, all’adozione un nuovo paradigma nello scambio con i diversi interlocutori per stimolare a riflettere sulle possibilità espressive di ogni colore e tonalità; dove la vostra creatività, nel rendere originale l’esperienza sensoriale e visiva, può indicare qualcosa capace di sorprendere, di rinviare a suggestioni future, di offrire un’ulteriorità di senso.
Qual è stato il vostro ragionamento e quale il percorso che ne è derivato con la costruzione del “Lechler Village”?
ARAM
MANOUKIAN
Lechler S.p.A. è un’azienda storica del mondo delle vernici.
Nata nel 1858, dopo 150 anni mantiene ancora il suo DNA di impresa familiare.
Ad oggi vi lavorano circa 600 persone impegnate nella ricerca, sviluppo, produzione e commercializzazione dei prodotti vernicianti e nella formazione degli utilizzatori.
La sua sede principale è a Como, dove sorge un importante sito produttivo, a cui si aggiungono quelli di Seregno e Foligno, oltre alle quattro filiali di Manchester (UK), Grenoble (Francia), Barcellona (Spagna) e Kassel (Germania). In America, l’azienda è presente in Brasile con il sito produttivo e filiale di Paraì (Rio Grande do Sul) e nelle filiali di Rio Negrinho (Santa Catarina), Tocantins (Minas Gerais) e Paulínia (São Paulo).
Refining, Industry, Yatching, Habitat e Decorative sono i settori con i quali Lechler S.p.A. dialoga e per i quali indirizza i suoi prodotti.
La lunga storia dell’azienda racconta la sua capacità di sintonizzarsi con lo spirito del tempo e raccogliere elementi per la sua continua evoluzione, non solo a livello produttivo, ma anche organizzativo, manageriale, culturale e sociale. Fondamentale è la relazione vitale che Lechler ha perseguito fattivamente con le sue comunità interne, i suoi stakeholder, il suo territorio.
In assenza della politica, di una visione generale che una società si dà, il ruolo dell’impresa è fondamentale. Se il cambiamento non parte dall’impresa è difficile pensare a una forma di palingenesi. Poche imprese che si attivano e hanno successo possono avere un effetto di emulazione e di propagazione negli altri. In questo senso ogni network diventa importante, per la sua capacità di influenzare il prossimo, tanto più se focalizzato sulla proliferazione di idee “generative”.
LUCIANO
VALLI
È un luogo nuovo, bello, per incontrarsi, avere relazioni, poter pranzare o bere un caffè. Per attrarre, per conoscere meglio le migliaia di utilizzatori nel mondo che apprezzano le caratteristiche distintive dei nostri prodotti, ai quali noi vorremmo far conoscere anche le nostre qualità valoriali: collaborazione, cultura, anima, sostenibilità.
Sono in fase di costruzione nuove palazzine dove verranno trasferiti gli uffici, l’area commerciale, l’Academy per la formazione interna e dei clienti. Sta per essere ultimato anche uno spazio espositivo, per raccontare attraverso immagini e oggetti ciò che sappiamo fare utilizzando il colore. E poi, in prospettiva, c’è anche il progetto di valorizzare l’area boschiva alle spalle dello stabilimento creando un percorso che sarà a disposizione della community.
Il concept alla base del Lechler Village può essere rappresentato da un cuore diviso a metà: da una parte c’è la “chimica della materia” che comprende tutte le attività che sono focalizzate sulla produzione; dall’altra c’è la “chimica delle relazioni”, ossia quel patrimonio intangibile di cultura che trasforma un gruppo più o meno vasto di persone in una squadra con un’anima, una chiara consapevolezza del senso di ciò che fa nel presente e una nitida visione dell’obiettivo futuro che sta cercando di raggiungere.
È un villaggio tematico della cultura del colore, un luogo per lavorare meglio, aperto al mondo. Un villaggio con più funzioni, per far crescere persone, attività, conoscenze.
Portatore di valori legati all’”Essere”, ancor prima del “fare”. Per dare una direzione, un “Senso” allo sviluppo dell’azienda in una prospettiva sostenibile.
La conoscenza trasformativa, le relazioni multiculturali, sono fonti e stimoli per generare prodotti, soluzioni innovative, emozioni. La cultura del colore, insieme all’uso di materie sostenibili, diventa elemento differenziale per una nuova visione comune, credibile, duratura.
Per poter suggerire traiettorie, nuovi modelli, attrarre talenti.
Se ripercorriamo la storia di Lechler possiamo ravvisare i prodromi di un modello imprenditoriale socialmente responsabile fin dalle origini, ad esempio nelle scelte successorie atipiche, con un modello di trasmissione basato sulla fedeltà e la competenza di chi già lavorava nell’azienda e ne condivideva la responsabilità.
Un DNA di impresa con una responsabilità sociale spiccata che riverbera all’interno della community e una configurazione organizzativa che il professor Magatti definirebbe “intelligente”.
Questa organizzazione è costantemente chiamata a dare un senso allo sviluppo dell’azienda.
Senso inteso come ‘direzione’ – semplificando: cosa faccio e perché lo faccio – e senso inteso come ‘senso etico’, ossia quali valori guidano l’agire, il modo di essere impresa.
Per Lechler, quindi, il concetto di generatività è nella sua essenza ed è stato naturale partecipare al Laboratorio di Management Generativo.
Nell’attuale contesto competitivo del mercato dei prodotti vernicianti, proporre soluzioni tecnologiche innovative e performanti non è sufficiente per fare la differenza. La grande capacità dell’industria dei prodotti vernicianti di sviluppare costantemente nuove proposte per il mercato ha creato un’enorme disponibilità di soluzioni per gli utenti finali, una poderosa capacità di offerta che non si è accompagnata a un progressivo sviluppo di know–how della domanda. Questa consapevolezza ha condotto Lechler a unire sempre la vendita dei prodotti alla promozione e alla divulgazione del sapere scientifico e umanistico per un uso consapevole del colore e del prodotto verniciante. Un impegno mantenuto grazie a corsi di formazione erogati su questi temi presso il nostro Campus e tenendo sempre attiva la ricerca di contenuti culturali ed elementi differenziali legati al colore. Con questi presupposti è maturata la prospettiva di Lechler, dichiarata attraverso il suo pay-off “The culture of color”, una missione etica ed estetica come contributo alla responsabilità sociale.
ARAM
MANOUKIAN
PODCAST
Nel laboratorio è stato per noi molto evidente che la significativa dinamicità della vostra impresa – quel “più di vita” che rimanda alla generatività sociale e che si traduce in un’innovazione non squisitamente tecnica, ma insieme tecnica e culturale – ruota attorno a una duplice tensione che si traduce per voi in una interrogazione continua. Da un lato, c’è un forte investimento di Lechler nella ricerca della qualità e unicità sul fronte realizzativo: ciò che si persegue è il miglioramento del prodotto in risposta tanto alle sempre nuove esigenze materiali e culturali della società, quanto ai nuovi orientamenti sensibili dei consumatori (e qui il riferimento va ai valori oggi emergenti, in primis quelli della bellezza, del rispetto dell’ambiente, della salute, della sicurezza). Dall’altro, emerge una tensione che potremmo definire “estetica”, nel senso che “porta fuori” dal mero “produrre” per orientarsi verso un più sofisticato e complesso generare. Ci piacerebbe approfondire con voi questo punto e raccontare cosa vi anima e vi orienta nel quadro delle transizioni epocali in cui siamo inseriti, per garantire la sostenibilità dell’azienda, ovvero il suo durare nel tempo generando un di più di valore?
ALFONSO
CIONTI
LECHLERIntervista a
Aram Manoukian, Presidente e AD di Lechler S.p.A.
Luciano Valli, Direttore Generale Business
Alfonso Cionti, Direttore Risorse Umane
Preda di questa amnesia, abbiamo chiuso gli occhi in uno stato di euforia, passando dal sogno di un mondo ideale al sonno del tempo presente. Se avessimo vegliato, avremmo visto che le realtà che supponevamo così remote e “di contorno” includevano una larga parte della popolazione del pianeta, mentre quelle che consideravamo desiderose del nostro stile di vita avevano altri progetti. Fino a quando queste identità tanto diverse sono venute a bussare alla nostra porta così violentemente che siamo stati svegliati quasi di soprassalto, aprendo gli occhi su un mondo che non riconosciamo più. Un mondo di de-globalizzazione, di nuove cortine di ferro e nuovi contrasti, nel quale ci troviamo incapaci di costruire modelli di confronto alternativi e costruttivi, non solo con le identità che premono ai nostri confini, ma persino con le diverse opinioni e prospettive che compongo la nostra società.
È un mondo in cui abbiamo paura di qualsiasi genere di conflitto, non riconoscendo in quest’ultimo il motore che ci permette di immaginare e progettare futuro. Rimpiangiamo, al contrario, l’illusione della tranquillità che dava forma al sonno in cui vorremmo tornare. Rimaniamo atterriti di fronte ad ogni attrito e difformità, tanto da alzare muri per cercare di isolarci in uno spazio di relativa sicurezza, lasciando fuori qualsiasi tempesta. Così facendo, tuttavia, abbiamo bandito anche il “nomos”: la legge che ci permetteva di trasformare lo spirito del confronto in uno spazio d’ordine condiviso, in cui norme e istituzioni erano capaci di limitare e regolare lo scontro, rendendolo un progetto politico incruento e funzionale.
La strada per affrontare le sfide conflittuali del presente passa necessariamente anche da questo aspetto più “intimo” della nostra società. Dobbiamo smettere di illuderci che tutto tornerà come prima: nessun leader, nessun miracolo dell’ultima ora, nessun appello alla ragionevolezza riporterà indietro le lancette dell’orologio agli anni ’90. Il nostro compito è ben più impegnativo e oneroso: prendere atto che ci troviamo in una posizione scomoda quanto inedita, la cui durata è ancora indefinita, ma da cui usciremo solo costruendo un approccio culturale nuovo, adatto al tempo in cui viviamo.
Francis Fukuyama
di Gabriele Segre
Presidente Fondazione Vittorio Dan Segre
Accettare il conflitto
L’errore non è stato considerare questi sviluppi come possibili, lo erano davvero nel 1992. Piuttosto pensare che fossero eterni: che il modello di democrazia una volta giunto all’apice non avrebbe avuto bisogno di nient’altro che della propria esistenza per mantenersi un riferimento cardine per l’umanità. Ci siamo dimenticati che quello stesso modello era prosperato proprio perché messo costantemente alla prova del tempo. Era stato forgiato dalla minaccia del totalitarismo, discusso e criticato da quegli stessi pensatori che ne applicavano convintamente i principi. La democrazia nasceva dal conflitto e solo nel conflitto poteva rafforzarsi.
QUESTION TIME
Riconoscere che il conflitto è parte imprescindibile e costituente di quest’epoca è un primo passo. Accettare la natura conflittuale del mondo non significa, tuttavia, accettare in alcun modo l’inesorabilità della guerra, bensì il suo contrario. Il conflitto è per definizione relazione: all’opposto dei sempre più angoscianti e distruttivi eventi bellici contemporanei, non si basa sulla dicotomia del male contro il bene, non appiattisce l’identità dei contendenti sull’irrisolvibile piano morale ed esistenziale del buono contro il cattivo. Tali sono le parole della propaganda di guerra che cerca di ridurre a una sola dimensione l'essenza di chi si trova nella trincea avversaria per convincerci ad uccidere un “nemico” reso tanto malvagio quanto impersonale. Oggi, al contrario, siamo chiamati a concepire il conflitto attraverso un approccio paradossalmente ancora più “scomodo” in quanto passa dal riconoscimento della complessità dell’identità dell’“altro”. Dobbiamo compiere l’incredibile sforzo di concepire l’intreccio di costrutti dinamici che determinano ogni individuo e ogni comunità umana: una molteplicità di interessi, culture, credenze, memorie storiche e traumi.
Un compito arduo, in particolare considerando che non esiste un singolo metodo capace di rendere questo approccio culturale efficace sempre e ovunque. Anzi, riconoscendo che il fallimento è un’opzione che deve essere contemplata. Tale consapevolezza sarebbe in sé un buon progresso. Il tentativo di creare uno spazio di relazione è già un punto di orientamento che ci consente di vedere al di là del muro del nostro smarrimento. E chissà che, una volta arrivati lì, anche il resto del cammino non ci appaia un po’ più chiaro.
Uno sguardo più attento e distaccato non esiterebbe a valutare questa previsione come irrealistica, ricordando che non è la prima volta che l’umanità è chiamata ad affrontare sfide epocali. Allora, forse, la chiave di lettura del nostro presente è racchiusa proprio nell’origine di questa paura, in quel senso di smarrimento profondo che proviamo contemplando il futuro.
Se ci fermiamo un momento a riflettere, realizziamo come questa incertezza sia resa ancora più paradossale dall’essere vissuta in un’epoca in cui le potenzialità del progresso dovrebbero rassicurarci sulla nostra capacità di rispondere a qualsiasi crisi. Eppure, le immense conquiste tecnologiche, la possibilità di disporre di terabyte di informazioni in tempo reale, le inedite risorse economiche, anziché darci fiducia sembrano essere parte del problema, rendendo il mondo ancora più indecifrabile e complesso. Tutto ciò si riflette nel modo in cui ci confrontiamo con uno dei tratti più radicati ed essenziali della natura umana: il conflitto. Dinnanzi ad una guerra, così come ad un confronto acceso tra forze politiche, oggi sembriamo sempre meno capaci a reagire e ad agire: i nostri comportamenti si limitano ad invocare una generica fine di ogni contrasto, pur consapevoli che difficilmente i cartelli con la scritta “cessate il fuoco” si riveleranno da soli una strategia efficace.
Per comprendere le origini di questo disorientamento dobbiamo guardare indietro nel tempo di almeno 30 anni, per osservare un evento chiave della nostra contemporaneità: la fine della Guerra Fredda. Lo sgretolamento dell’Unione Sovietica coincideva con la credenza che la storia fosse davvero giunta alla fine. Una convinzione condivisa da molti e descritta in maniera celebre dal politologo americano Francis Fukuyama. Dopo secoli di lotte tra popoli e ideologie, il confronto finale tra le due superpotenze rimaste si era risolto in maniera naturale a favore del modello democratico liberale. Senza il pericolo imminente dell’autodistruzione ci si poteva finalmente dedicare ai diritti dell’uomo, alla sua salute, al suo benessere. Prosperità e sicurezza erano per la prima volta alla nostra portata in un nuovo ordine globale fondato sui valori rappresentati dalla storia e dalla civiltà occidentali. Certo il progetto non era completato: esistevano realtà arretrate e marginali in cui i benefici goduti nelle nostre società non erano ancora arrivati. Pezzi di mondo in rapida evoluzione avevano appena cominciato ad aprirsi all’economia di mercato, ma eravamo certi che la promessa della prosperità avrebbe conquistato anche gli indecisi.
"Due guerre alle porte d’Europa costantemente in procinto di espandersi, le previsioni sempre più angoscianti sul cambiamento climatico, l’attesa della prossima pandemia… Mai come oggi il mondo ci appare sull’orlo di un baratro profondissimo, a un passo dalla sua distruzione. Ma è davvero così?
Tecnologia e Generatività Sociale: il pensiero tecno ottimista di Peter Bloom
Tale visione promuove l’idea che, se adeguatamente organizzate e gestite, le nuove tecnologie possano abilitare e potenziare lo sviluppo di dinamiche orizzontali e democratiche, sia aumentando la possibilità di espressione all’interno della sfera pubblica, sia stimolando l’ascesa di movimenti sociali ed un cambiamento nello status quo individuale.
Peter Bloom
The Future of Empowerment Today Transhumanism
Erikson identifica la generatività come la capacità e la volontà individuale di lasciare un'eredità a beneficio della società futura. L'estensione della teoria della generatività in chiave sociale si deve al lavoro di Magatti e Giaccardi (2014), che la applicano alle dinamiche umane, alle organizzazioni, all'ambiente e al tempo, collegandola spesso a iniziative sociali ed economiche di valore contestuale e integrale, altruistiche e relazionali.
Bibliografia
In una società sempre più globalizzata, connessa e dinamica come quella odierna, la generatività sociale sembra essere fortemente influenzata da fattori tecnici e tecnologici, che plasmano e trasformano i sistemi di relazione al suo interno (cfr. Thomas & Tee, 2022). La dimensione sociale e relazionale della generatività, gli obiettivi a cui essa mira e le modalità per raggiungerli si intrecciano con aspetti tecnologici e innovativi che, inevitabilmente, hanno un impatto significativo nella società contemporanea.
L’integrazione tra tecnologia e società è ampiamente esplorata dalle ricerche di Peter Bloom, professore di Management all'Università dell'Essex, che si focalizzano sulle possibilità radicali della prima di ridefinire e trasformare il lavoro e la società contemporanea. Bloom sottolinea come le nuove tecnologie (quali l’l'intelligenza artificiale, il cloud computing e l'Internet delle cose) stiano fortemente cambiando i processi decisionali collettivi, sconvolgendo i modelli di governance economica e politica.
"La teoria della generatività, introdotta nel campo delle scienze sociali da Erikson (1950), descrive la capacità di produrre o creare qualcosa di nuovo (Thomas & Tee, 2022) e offre un quadro di riferimento antropologico, filosofico e comportamentale per la vita personale.
Bloom, P., & Sancino, A. (2019). Disruptive democracy: The clash between techno-populism and techno-democracy. SAGE.
de Ville, G. (2020), Creating shared futures together, https://cobracollective.org/news/creating-shared-futures-together.php accesso in data 03/09/2024.
Erikson, E.H. (1950) Childhood and society. London: Penguin Books.
Floridi, L. (2020). Pensare l'infosfera: La filosofia come design concettuale. Raffaello Cortina Editore.
Magatti, M., & Giaccardi, C. (2014). Generativi di tutto il mondo unitevi! Manifesto per la società dei liberi. Feltrinelli.
Thomas, L. D., & Tee, R. (2022). Generativity: A systematic review and conceptual framework. International Journal of Management Reviews, 24(2), 255-278.
Peter Bloom - Monitored: Who’s Watching the Watchers?
In tal senso, l’Autore sostiene che tecnologia e società siano reciprocamente costitutive e come si co-creino vicendevolmente. All’interno di questo processo la tecnologia può avere effetti civili differenti, che possono essere trascurabili, innovativi oppure dirompenti. Nel primo caso, la tecnologia ha un effetto minimo o addirittura nullo sulle relazioni sociali, politiche ed economiche, mentre nel secondo caso contribuisce ad aggiornare ed evolvere uno status quo, senza trasformarlo. Infine, nel caso di una tecnologia dirompente, la sua influenza risulta sfidante e trasformativa ed in grado di stravolgere un ordine sociale dominante.
Peter Bloom
di Angela Rizzo, Alessandro Sancino
Università degli studi di Milano-Bicocca
Inoltre, la visione proposta da Bloom invita a considerare le nuove tecnologie nell’ambito della governance pubblica come servizi (pubblici) secondo una logica che si discosta da quella tipica dei processi di servitizzazione che paragonava i beni pubblici a quelli privati ed identificava i loro utilizzatori meramente come utenti. In questo contesto, le nuove tecnologie sono invece considerate sia nell’ottica dell’accountability per gli attori pubblici, che hanno il compito di fornire tecnologie funzionanti e soddisfacenti alla società, che siano considerate di valore dai cittadini, sia nell’ottica di processi partecipativi formali ed informali e di co-produzione, la cui importanza si è affermata proprio in seguito al superamento della logica top-down di servitizzazione. Tale superamento ha infatti aperto la strada alla logica imprenditoriale ed a quella collaborativa come forme innovative per il problem solving dove la tecnologia può avere un ruolo abilitante ed innovativo. La stessa sembra infatti assumere, nella logica proposta dall’autore, il ruolo di driver generativo, capace di stimolare il lavoro collettivo di una comunità verso la creazione di valore pubblico, sociale, comunitario. Le nuove tecnologie presenterebbero dunque il potenziale per migliorare gli aspetti democratici e l’empowerment dei suoi membri e permetterebbero di ridefinire in maniera inedita le dinamiche relazionali e collaborative di co-produzione (favorendo, ad esempio, processi open source di problem solving e processi di scambio di dati e di conoscenza tra settori ed attori tra loro differenti) e di accountability.
Il potenziale innovativo della tecnologia, se adeguatamente guidato e gestito, sembra dunque poter favorire lo sviluppo di quei percorsi evolutivi di governance necessari per affrontare i complessi e continui mutamenti che caratterizzano l’attuale contesto sociale, inclusi quelli di accountability e monitoraggio di processi di cattura di valore pubblico. Ad esempio, in un video per Renegade INC, una piattaforma media indipendente che “fornisce ai suoi membri contenuti e connessioni che aiutano a orientarsi nella 'nuova normalità'”, Bloom sostiene che "tutti sappiamo che siamo osservati, ascoltati, tracciati, seguiti e monitorati, ma chi assicura che le persone in posizioni di potere e quelle con monopoli aziendali rimangano responsabili?".
In sintesi secondo Bloom, la tecnologia è una manifestazione delle nostre capacità—ciò che siamo in grado di fare, il che alimenta un senso di ottimismo riguardo al potenziale di progresso umano. Tuttavia, quando analizziamo la tecnologia, il nostro focus dovrebbe essere non semplicemente sugli strumenti in sé, ma piuttosto sulle capabilities che essi abilitano. Questo cambio di prospettiva potrebbe avere implicazioni profonde, in particolare perché le forme tradizionali di organizzazione spaziale sono state riconfigurate. L’avvento delle tecnologie moderne ha infatti alterato il significato della prossimità spaziale, segnando una rottura con le esperienze umane precedenti attraverso la dematerializzazione e rimaterializzazione delle nostre connessioni e interazioni. Questa riconfigurazione è pero’ intrecciata con una logica di coproduzione nelle piattaforme digitali che per ora è guidata più dai progressi tecnologici e dalle dinamiche di mercato che dalle capabilities civiche di cui sopra, che sono invece intrinsincamente legate al concetto di generatività sociale proposto da Magatti e Giaccardi (2014).
Tuttavia, a prescindere dalla loro ampiezza, gli impatti provocati dalla tecnologia sulla società sono stati spesso inquadrati secondo una prospettiva negativa, che vede la prima come “distruttiva” e “tirannica” per la seconda. Bloom apre invece una visione complessivamente tecno-ottimista in cui le nuove tecnologie possono essere governate, diventando “salvatrici” e “democratiche” (Bloom & Sancino, 2019), secondo una logica che non vede la società come “governata” dalla tecnologia ma che, al contrario può governarla, sfruttando le opportunità che la stessa offre nell’aumentare le capacità di quello che è possibile fare, in una sorta di civilizzazione del nuovo mondo digitale come auspicato da Luciano Floridi (2020).
INTERNAZIONALE
Peter Bloom:
New technologies and empowerment
Per Bloom, la tecnologia all’interno della società ricopre un triplice ruolo. Rappresenta un’opportunità unica di ottimizzazione ed ampliamento delle modalità di azione; consente un rimodellamento delle tradizionali nozioni legate allo spazio relazionale; opera una riconfigurazione dei legami che avvengono al suo interno, in un’ottica sistemica. Le nuove tecnologie sono considerate da Bloom come delle opportunità perché introducono nuove modalità per il suo sviluppo e la sua applicazione e perché aumentano le possibilità per la costruzione di dinamiche collaborative. La tecnologia, infatti, consente di stabilire un maggiore numero di connessioni tra gli individui, ridefinendo la classica idea di relazionalità, attraverso il superamento del limite fisico e tradizionale della prossimità spaziale che, per la prima volta nella storia non è più il principale driver che sta alla base della stessa. Questa ridefinizione del contesto relazionale amplia il numero di opportunità partecipative e di co-produzione, modificandone le dinamiche attraverso processi di de-materializzazione e di re-materializzazione.
Alcuni progetti di Bloom si sono occupati di come consentire a individui e comunità di plasmare il futuro, invece di essere passivamente modellati da esso, ad esempio attraverso app per progettare interventi urbani partecipati in cui connettere risorse e aspirazioni comunitarie (de Ville, 2020). Tra i progetti trattati, Bloom si occupa inoltre anche di studiare in una visione tecno-ottimista, il potenziale di intelligenza collettiva insito nei big data, l'uso della realtà virtuale per rafforzare la democrazia e le opportunita’ di una società transumana.
Gender gap: un problema culturale
La limitata partecipazione delle donne al mercato del lavoro è strettamente influenzata da due fattori culturali significativi che condizionano le loro scelte educative, professionali e familiari.
Da un lato, il peso del lavoro di cura ricade ancora oggi principalmente sulle donne, rendendo spesso difficile per loro mantenere una carriera soddisfacente e bilanciare le responsabilità familiari. La mancanza di flessibilità lavorativa e l’alto costo dei servizi di supporto, come quelli per la cura dei figli o degli anziani, aggravano ulteriormente questa situazione. Molte madri si trovano costrette a rinunciare alla carriera o a non avere figli, contribuendo a un fenomeno preoccupante: l'inverno demografico. L’invecchiamento della popolazione, il calo dei residenti e l’aumento del saldo migratorio netto sono tutti segnali preoccupanti, ma ancor più rilevante è la scelta, talvolta forzata, di molte coppie di non avere figli. Tra coloro che desiderano almeno un bambino, infatti, oltre il 50% non riesce, o teme di non riuscire, a realizzare questo desiderio, mettendo in luce un problema che riguarda non solo le famiglie, ma l’intera società. Inoltre, l'invecchiamento demografico aumenterà la domanda di lavoro di cura, con il rischio che molte donne si trovino bloccate tra impegni di assistenza familiare e lavori poco qualificati e mal retribuiti.
Fondazione Gi Group: strategie e iniziative per superare le disparità di genere per un futuro del Lavoro Sostenibile
Con l’obiettivo di essere un punto di riferimento sui temi della sostenibilità del lavoro, Fondazione Gi Group vuole contribuire all’analisi e al dibattito sui processi e sui blocchi che caratterizzano il mercato del lavoro. Collaborando con i suoi stakeholder cerca di individuare soluzioni che contribuiscano al progresso del Paese, generando valore per la collettività, attraverso tre linee operative:
- Studiare: un’attenta analisi del mondo del lavoro e della sua evoluzione, condotta dal Centro Studi e dal suo Osservatorio, diventa il punto di partenza da cui vengono strutturate e sviluppate iniziative di intervento concrete e replicabili;
- Fare: per promuovere e rendere possibili modelli economici inclusivi e sostenibili, abbassando le barriere di ingresso nel mercato del lavoro, vengono realizzate azioni mirate all’inclusione, intercettando i soggetti con difficoltà ad accedere al mondo del lavoro o che ne sono rimasti esclusi;
- Diffondere: tutti i progetti, le pubblicazioni e gli eventi realizzati hanno come obiettivo comune quello di sensibilizzare i portatori di interesse interni ed esterni alla Cultura del Lavoro Sostenibile.
Alcuni progetti di Fondazione GiGroup
Coerentemente con l’impegno del Gruppo a supporto dell’employability femminile, Fondazione Gi Group realizza progetti e collaborazioni dedicate a sostenere la parità di genere. Uno dei primi avviati è DiciottoPiù, un progetto in collaborazione con il CAV Mangiagalli dedicato a supportare la genitorialità attraverso formazione e lavoro. Valutando l'occupabilità di mamme, papà e famigliari, Fondazione identifica i punti di forza e le aree di miglioramento su cui intervenire e li indirizza verso percorsi formativi e lavorativi coerenti per essere occupabili nel mondo del lavoro.
Con una particolare attenzione al ruolo cruciale dell’orientamento e della formazione, Fondazione promuove e supporta l’attività di volontariato di competenza che ogni anno coinvolge i dipendenti del Gruppo, Destination Work. L’iniziativa propone webinar, eventi e iniziative dedicate a favorire un orientamento più consapevole ed efficace per migliorare l’occupabilità delle persone. Nel 2024, con un forte focus sul valore del lavoro come strumento di empowerment, l’impegno dei volontari e delle volontarie sarà rivolto alle donne che vivono situazioni di fragilità e svantaggio.
Settori a prevalenza maschile: ICT, Logistica, Automotive
In Italia ci sono settori che stanno vivendo una rapida crescita e, di conseguenza, un aumento della domanda di personale che accresce lo skill mismatch, superiore al dato medio nazionale. D’altra parte, questi stessi settori sono tra quelli che presentano una maggior disparità di genere. Facendo alcuni esempi: nel settore ICT solo 36,7% degli occupati è donna, nella Logistica/Trasporti solo il 30,8% e nella Meccanica/Automotive il 25,3%.
Questo divario di genere non è solo una questione di numeri, ma è radicato in una “cultura maschile” ben consolidata. Nostri studi rivelano che orari rigidi, richieste di trasferte frequenti e stili di leadership poco inclusivi contribuiscono a mantenere le donne ai margini di questi settori. Inoltre, esiste un bias cognitivo che alimenta una percezione esterna negativa di questi ambiti, in netto contrasto con l’esperienza positiva di quelle donne che vi lavorano già.
Per superare queste barriere, non basta una maggiore consapevolezza delle aziende: serve un impegno coordinato per far conoscere le reali opportunità di carriera a tutte le donne, attraverso campagne di comunicazione mirate e strategie di employer branding che presentino una visione più inclusiva di questi settori. È essenziale creare un ponte tra scuola e impresa, coinvolgendo giovani, docenti e famiglie nei percorsi di orientamento, per far comprendere l’importanza delle competenze richieste e le opportunità formative.
Occupazione femminile in Italia: la fotografia
In Italia, il mercato del lavoro presenta sfide ancora molto complesse. Da un lato, cresce il divario tra domanda e offerta di lavoro, dall'altro, i tassi di disoccupazione e inattività restano particolarmente elevati, soprattutto tra le donne. La situazione delle lavoratrici e delle candidate nel nostro Paese è ben lontana dall’essere ottimale per numero di ore, adeguatezza della retribuzione e qualità intrinseca dell’impiego e delle mansioni. Per dare qualche dato, a parità di livello, un'ora di lavoro di una donna vale il 15,4% in meno rispetto a quella di un uomo. Inoltre, quasi una su due ha un contratto part-time, spesso per necessità piuttosto che per scelta. Il divario tra l'occupazione maschile e femminile è altrettanto significativo: mentre il 69,2% degli uomini è occupato, solo il 51,1% delle donne lavora, un distacco di 18 punti percentuali, ben superiore agli 11 punti della media europea. E la situazione non migliora quando si osservano le posizioni apicali: su 100 dirigenti italiani, solo 21 sono donne. Anche a Milano, città con una forte presenza femminile tra i laureati (55,5%), il divario di genere nelle posizioni di leadership resta evidente.
Negli ultimi anni, nelle economie più avanzate, abbiamo assistito a una crescente partecipazione delle donne nel mondo del lavoro, grazie a una serie di fattori che hanno favorito questo cambiamento. Tra questi, spiccano il miglioramento dell'accesso all'istruzione, un'evoluzione degli atteggiamenti sociali, l'espansione dei settori legati ai servizi e l'adozione di politiche mirate a promuovere la parità di genere. Anche in Italia si è registrato un aumento della presenza femminile nel mercato del lavoro, ma nonostante il nostro Paese sia tra le prime dieci economie globali, rimane in fondo alle classifiche del Global Gender Gap Index. Secondo gli ultimi dati del World Economic Forum, se non ci sarà un cambiamento deciso e concreto, ci vorranno ancora 131 anni per colmare il divario di genere. Una prospettiva che minaccia la sostenibilità del mercato del lavoro e coinvolge non solo il presente, ma anche diverse generazioni future, rendendo urgente l'adozione di politiche più efficaci per ridurre questo gap.
VIE
di Fondazione GiGroup
Fondazione Gi Group studia, approfondisce e sviluppa pensiero e pratiche per realizzare il concetto di Lavoro Sostenibile. Inoltre, rappresenta un riferimento culturale per gli stakeholder interni ed esterni al fine di facilitare la diffusione di principi, valori ed azioni che si ispirano al Manifesto del Lavoro Sostenibile.
Dall’altro lato, le donne sono ancora sottorappresentate nei settori STEM, spesso considerati tradizionalmente maschili. Questo stereotipo di genere impedisce alle donne di accedere a opportunità lavorative in settori in forte espansione come l’ICT, che stanno vivendo una crescita significativa e creano nuove opportunità professionali con competenze qualificate e specializzate. La parziale esclusione delle donne da questi settori non solo aggrava il mismatch tra domanda e offerta di lavoro, ma rappresenta anche una perdita di crescita economica e innovazione. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, un allineamento delle competenze STEM tra uomini e donne potrebbe incrementare il tasso di crescita economica del 20%.
Per garantire un mercato del lavoro sostenibile e inclusivo, è necessario superare queste barriere e creare opportunità concrete affinché le donne possano contribuire attivamente alla crescita economica e sociale del Paese.
Coinvolgendo aziende, istituzioni, associazioni e università, Fondazione Gi Group ha realizzato la pubblicazione “Women4: superare le disparità di genere per un futuro del Lavoro Sostenibile” con l’obiettivo di comprendere come poter superare alcune delle criticità che caratterizzano il mercato del lavoro in Italia combinando fra loro punti di vista che, incontrandosi, possono portare alla generazione di occasioni di lavoro per le donne, con importanti impatti dal punto di vista esistenziale, reddituale e sociale e ridurre al contempo il disallineamento fra la domanda e l’offerta all’interno del mercato del lavoro.
Gi Group Holding, con il progetto di Gi Group “Women4”, si pone l’obiettivo di promuovere l’occupabilità femminile in settori tradizionalmente maschili. Attraverso una piattaforma digitale dedicata, vengono condivisi contenuti, interviste, contributi utili ad abbattere i pregiudizi di genere e promuovere una cultura del lavoro più inclusiva. Inoltre, attraverso la collaborazione con le aziende sul territorio, vengono promossi percorsi di orientamento e formazione per far conoscere meglio le opportunità di lavoro in settori chiave e abbattere gli stereotipi che ancora scoraggiano molte donne dall’intraprendere queste carriere e le studentesse dall’immaginare in questi ambiti il proprio futuro professionale.
GENERAZIONI
La veste grafica e lo stile asciutto, omissivo, tipico dei social giocano certamente un ruolo importante nell’attirare nuovi followers, ma il lettore deve fermare il pollice sulla news perché realmente interessato al tema trattato, non solo in quanto incuriosito dalla veste con la quale viene presentato o dal solito titolo clickbait. Sempre più pagine, su Instagram e altre piattaforme, sembrano volersi distinguere grazie alla qualità dei propri contenuti, trattando temi alti e perfino complessi, cercando di decifrare la complessità dell’oggi con un linguaggio fresco e comprensibile, ma citando fonti attendibili, escludendo il pressapochismo che spesso è conseguenza della corsa spasmodica allo scoop o al trend del momento. Citando nuovamente Paolo Bovio: “Will non è una realtà data-driven – la selezione delle notizie non è dunque modellata sui trend del momento – ma data-inspired, cioè orientata a raccontare la contemporaneità in maniera schietta e realista, intercettando sì i temi considerati “caldi” dai lettori, ma raccontandoli in maniera innovativa e sfidante, cercando di incoraggiare la riflessione e la partecipazione”.
Un’informazione giovane per scoprire il mondo: Will Media propone un “attivismo delle idee” per avvicinare le nuove generazioni
Will Media nasce nel 2020 come start up, con l’intento di creare uno “spazio per i curiosi del mondo”, un forum in grado di proporre un’informazione di qualità, che si adatti ai ritmi incalzanti dei media odierni occupandosi di temi cari alla fruizione più giovane, spesso trascurati dai media “tradizionali”.
di Giacomo Checchin
Educatore abilitato, redattore giornalistico in ambito “education” e formazione, ricercatore
Il target delle notizie riportate da Will è tendenzialmente giovane, ma la comunità online coinvolge circa 1.9 milioni di lettori e si rivolge a un’audience variegata, in un’ottica transgenerazionale. La particolare attenzione dedicata a temi come l’occupazione, la crisi abitativa, quella climatica e le nuove tecnologie sembra comunque attrarre soprattutto le nuove generazioni, quelle che maggiormente subiscono (e subiranno) le conseguenze di tali fenomeni. I punti chiave nella realizzazione delle notizie di Will sono essenzialmente tre: il lettore deve sentirsi interessante, deve cioè percepire un’utilità nella fruizione della notizia. Non a caso la domanda che compare sulla home page del sito we di Will è: “Stasera su cosa vuoi fare un figurone a cena”? Chi legge deve poi sentirsi committed (impegnato), cioè coinvolto nelle sfide del suo tempo. Infine l’obiettivo è fornire un’informazione completa, uno spunto per sentirsi aggiornati, al passo coi tempi e, appunto, informati su quanto accade nel Paese e nel mondo.
A chi potrebbe trovare impensabile, perfino blasfemo asserire che un video di 4-5 minuti, incontrato sui social durante una sessione di scrolling, possa informare efficacemente il fruitore, realtà come Will propongono un paradigma diverso. Non si può infatti trascurare la metamorfosi del pubblico, le necessità e i nuovi tempi di attenzione dei lettori moderni ed è semplicistico associare la velocità di lettura alla scarsa qualità dell’informazione. La brevità è figlia della contemporaneità e non codifica necessariamente l’atteggiamento di una generazione distratta, piuttosto cerca di arrivare al pubblico adattandosi ai tempi. È forse proprio questo il mito da sfatare, una visione che associa invariabilmente la gioventù alla superficialità, una dicotomia che viene puntualmente contraddetta da realtà come Will e dalla loro capacità di attrarre seguito e generare valore. Le potenzialità fornite dai nuovi media sono infinite, a fare la differenza è la volontà generativa di chi scrive, una finalità divulgativa che ha l’obiettivo di stimolare la partecipazione dei lettori.
Trovando un nuovo slancio dopo due anni (2022) attraverso la partnership con Chora Media, la prima podcast company italiana, Will ha dato origine ad alcuni dei programmi di podcasting più popolari del panorama social, coprendo uno spettro di tematiche molto ampio e occupando uno spazio inedito nell’affollato panorama giornalistico e mediatico. Sono proprio le piattaforme social, con le loro caratteristiche peculiari e le loro regole, a rappresentare lo spazio di azione di Will, tuttavia l’offerta informativa mira soprattutto a creare una sorta di “cortocircuito” sui feed degli utenti. Assecondando il bisogno di velocità, di una lettura rapida e agevole, i contenuti di Will hanno l’obiettivo di sfidare la fruizione, spingendola a informarsi in maniera consapevole, conferendo uguale importanza alla correttezza e alla leggibilità dei contenuti proposti. Nelle parole di Paolo Bovio, managing editor presso Will e host del podcast “Città”, si può cogliere la volontà fondante di Will: avvicinare la fruizione in maniera accattivante, un “infotainment” in linea con le necessità del pubblico moderno, ma in grado di tutelare l’approfondimento, il rilievo della notizia e l’accuratezza nella sua trattazione. I social, come chiarisce lo stesso Bovio, non nascono come piattaforme finalizzate all’informazione, il loro intento principale è proprio l’intrattenimento e il linguaggio social è per definizione sintetico, tendenza che talvolta può sfociare nella superficialità. “Ma i social network non sono mezzi per “dimenticare il mondo” – prosegue Bovio – sono piuttosto strumenti per scoprirlo”.
Il tema ambientale, quello del lavoro, la vita in città e le disuguaglianze sociali, ma anche articoli di colore e curiosità compongono l’universo Will, una varietà tematica che asseconda le esigenze sempre più variegate del lettore social. In gergo si definisce “stopping power” la capacità di attrarre l’attenzione dell’utente social, molto spesso impegnato in uno scorrimento disattento, il cosiddetto scrolling. “Qualsiasi realtà che miri a sopravvivere in ambito social – chiarisce Bovio - deve mettere in atto delle strategie in grado di catturare l’attenzione degli user”, impresa non semplice vista l’ovvia e feroce concorrenza che domina i feed di Instagram e la moltitudine di trasmissioni podcast, divenuti un mezzo di intrattenimento e informazione estremamente diffuso. La formula di Will (@will_ita su Instagram) consiste nel richiedere attenzione e tempo agli user, ma di farlo, nelle parole di Bovio, con rispetto e trasparenza.
L’identità di Will è radicata nell’attivismo, d’altronde la pagina e i profili social nascono per occuparsi di temi trascurati dal cosiddetto mainstream. Questo attivismo riguarda i temi stessi, è un tentativo di conquistare il lettore con tecniche proprie ai social, tenendo però il “cuore della notizia” e la volontà di informare l’utente in cima alla lista delle priorità. Un esempio è quello del documentario “One day One day”, il racconto delle vite dei braccianti di Borgo Mezzanone e di come molto, troppo spesso il cibo che consumiamo arrivi sulla nostre tavole attraverso privazioni e sofferenze. Il documentario è visibile gratuitamente sul sito di Will: “Dopo averlo mostrato agli studenti delle scuole superiori abbiamo deciso di distribuire One Day One Day, co-prodotto da Will Media e A Thing By, a chiunque”, a riconferma di quanto il messaggio veicolato dalle news rappresenti la priorità per Will.
Si può sprecare tanto talento?
Affascinato da questa storia, Yuri ne parla a due amici - Sara Furlanetto, studi in giornalismo fotografico, e Giacomo Riccobono, specializzato in marketing - con cui condivide la passione per il viaggio e la fantasia di sperimentarsi, Insieme decidono di progettare una grande spedizione che li porterà in oltre 2 anni – con una interruzione importante a causa del Covid-19 – a percorrere a piedi dalle Alpi Giulie fino a quelle Marittime, e poi verso Sud, lungo la dorsale appenninica, fino alla Sicilia e alla Sardegna, chiudendo un immaginario cerchio. Quasi 8.000 km.
Va' Sentiero: camminare, scoprire, condividere
Intervista a Sara Furlanetto e Yuri Basilicó
Inizialmente il progetto ottiene grande interesse ma poco supporto concreto dalle sfere amministrative e politiche più alte, anche se i ragazzi si propongono a tutti – dai più svariati Ministeri alle Regioni.
“Ci piace molto il fatto che non sia solo uno stare insieme, ma un dare significato a questo tempo. Sublimarlo. Generare qualcosa. Non solo mi ricarico interiormente, mi rifaccio gli occhi, respiro aria pulita - che è già molto - ma porto qualcosa, metto un contenuto.”
MONTURA, azienda di abbigliamento tecnico con una grande spinta verso il sociale e il culturale, è la prima a crederci e a decidere di sostenere la spedizione. In mano non c’è ancora nulla. Solo un’idea. Grazie ad un successivo crowdfunding vengono raccolti i fondi che consentono alla spedizione di cominciare davvero.
Nel 2016, Yuri Basilicò incrocia per caso l’esistenza del Sentiero Italia. Le sue ricerche lo portano a scoprire che si tratta - lo affermava già la CNN nel 2012 - “di uno dei sentieri più lunghi del mondo in uno dei Paesi più belli del mondo”. Una meraviglia sconosciuta ai più.
Il cammino non resta un puro evento. Diventa esperienza. La conoscenza acquisita si apre come un ventaglio ricchissimo e si dispiega al plurale, diventando geografica, ambientale, fisica, tecnica, ma anche culturale, linguistica, antropologica, e condivisa, non solo tra chi ha già fatto il percorso ma anche a chi – in un virtuale passaggio di testimone - si cimenterà domani.
SEGNALI di BELLEZZA
Si aderisce al percorso per riscoprire la bellezza della montagna. Per lasciarsi meravigliare da panorami larghi e imponenti. Per respirare nuovamente aria pulita. Per vivere alcuni giorni in semplicità e ritrovare un po’ di benessere. Ma c’è anche dell’altro.
Molti dichiarano di essere attratti dalla compagnia (andare per monti in solitaria può diventare pericoloso). Nel cammino, ci si conosce. Si dialoga. Nascono amicizie e amori. Si impara, insieme, a superare distanze e altezze, a campeggiare ovunque si trovi rifugio. Non ultimo, si riportano le aree montane nel proprio orizzonte, quale spazio di possibilità da custodire e tutelare. Da continuare a far vivere.
L’associazione l’abbiamo fondata nel 2017, mentre la partenza è stata a maggio del 2019. In quegli anni le nostre vite andavano avanti, io mi ero iscritta ad antropologia a Venezia e collaboravo con uno studio di design, i ragazzi lavoravano nel turismo. Abbiamo incominciato a fare rete con altre associazioni medio-grandi già attive nell’ambito della tutela ambientale e culturale, dal Touring Club alla rete di AMODO, per cominciare a parlare del progetto e renderlo più credibile. Abbiamo raccolto il patrocinio da tante associazioni e dalle Regioni. Ci siamo rivolti alle fondazioni e alle aziende private per raccogliere fondi. È stato un lavoro difficile. “Bello, bellissimo” - ci dicevano - “Diteci quando qualcun altro vi sostiene”.
“Ci piacerebbe tanto che questa cosa della spedizione andasse avanti, 1 mese all’anno, con un festival che si rinnova, oltre ai confini d’Italia e andare avanti con altre persone… Questo è il mio sogno. Se un giorno Va’ Sentiero camminerà con altre gambe vuol dire che è sopravvissuto a chi lo ha creato dimostrando di essere una buona idea anche per altri.”
Il format prevede la possibilità di aggregarsi alla spedizione in modo libero e gratuito (tutto è gestito in modo auto-organizzato), indipendentemente da età, esperienza e motivazione.
“Quello che avevamo in mente era ambizioso: una spedizione di 8.000 km con un team capace di documentare segmenti tematici diversi dei territori, dalla documentazione visiva, video, alla documentazione tecnica dei percorsi, delle realtà resilienti, delle tradizioni, delle storie, dei dialetti…”
Oggi, a percorso completato, cosa rimane della spedizione sul Sentiero Italia?
● Un sito internet che contiene una guida digitale completa all’intero percorso, tecnica e culturale, bilingue: www.vasentiero.org
● Una mostra fotografica itinerante, sullo stato attuale delle Terre Alte
● Un libro ispirazionale edito da Rizzoli: disponibile in libreria, il volume propone una selezione di 25 itinerari dal Sentiero Italia. Gli autori avvisano: non si tratta di una guida tecnica ma di un atlante sparso e ispirazionale delle Terre Alte, illustrate da magnifiche immagini e mappe.
Va’ Sentiero è un’idea di viaggio basata sui concetti di scoperta, condivisione & circolarità. Con le nostre spedizioni esploriamo le Terre Alte e documentiamo i percorsi e i territori: raccogliamo dati tecnici, informazioni culturali ed enogastronomiche, produciamo foto e video per raccontare l'esperienza. Crediamo nell'interazione col territorio e nel coinvolgimento delle persone: chiunque può venire a camminare con noi e lungo i nostri cammini organizziamo eventi culturali con le realtà locali. Vogliamo favorire un turismo lento, stimolare l’economia e la consapevolezza ambientale delle aree interne.
Al contempo Va’ Sentiero continua a costruire nuovi progetti di viaggio e documentazione su nuovi sentieri delle montagne italiane, come sul Cammino Naturale dei Parchi (tra Lazio e Abruzzo) o il Sentiero della Pace in Trentino. Molto altro è però in preparazione. Il desiderio di Yuri e Sara è di proporre il format in altre regioni montuose – i Balcani, i Carpazi, i Pirenei - illuminando aree bellissime che rischiano di restare marginali, e per sperimentare la contaminazione transfrontaliera sulle buone pratiche in ambito di Aree Interne.
In fondo, camminare insieme ad altri si conferma, come spesso è accaduto nella storia, un’azione dal sapore politico quando riesce a mobilitare pensieri e risorse e a farsi strumento di discussione intorno a temi che riguardano la conoscenza e la tutela dell’ambiente.
Sono Yuri Basilicò, mezzo milanese e mezzo siciliano, classe 1987. Sono laureato in Relazioni internazionali, un percorso formativo diverso da quello che oggi è la mia professione, di guida e project manager. Il progetto sul Sentiero Italia è arrivato in modo casuale: è stato un banco di nebbia improvviso a modificare il corso degli eventi personali.
Quello che cerchiamo di spingere è l’idea di utilizzare il cammino in una dimensione comunitaria, per aprire lo sguardo di chi viene con noi… Ancora oggi molte persone vedono la montagna come un parco giochi o come spazio finalizzato puramente al proprio benessere. Vedo crescere la consapevolezza della montagna come luogo in cui vivere e lavorare. Una ragazza di Napoli che ha camminato con noi recentemente mi ha detto: “Alle Europee voterò un signore che si sta impegnando molto per far rivivere l’entroterra e devo ringraziare Va’ Sentiero perché mi ha avvicinato a questa sensibilità…”
La prima cosa che ho trovato nella mia ricerca è stato un articolo della CNN che stilava una top 10 dei più importanti sentieri al mondo e del Sentiero Italia parlava come del più grande dei grandi sentieri. Non c’era nient’altro, e io ho pensato: è paradossale! Un po’ sull’impulso del momento ho scritto due paginette di progetto. Mi sono immaginato una spedizione che percorresse questo sentiero, aggregando persone, facendo partecipare il pubblico a questo viaggio, con lo scopo di documentare il percorso, creando una guida ai territori, e che al contempo potesse anche essere un osservatorio sulle aree interne attraversate. Non che fosse solo un’avventura, ma che rispondesse a un ideale e a uno scopo pratico ben preciso.
Noi abbiamo lanciato una formula partecipativa. Prima di partire, abbiamo pubblicato un calendario con un programma, aggiornandolo man mano, perché c’era la possibilità di imprevisti, ad esempio metereologici. Le persone si iscrivevano, segnando in quali tappe si sarebbero aggiunti. La loro logistica era più o meno autonoma. Noi cercavamo di dare informazioni su eventuali strutture: se c’era una palestra a disposizione, una parrocchia, un rifugio, e poi cercavamo di mediare. Chi si è aggregato spesso era giovane e neofita a questo genere di esperienza. Che era anche uno dei nostri obiettivi.
il 1.5.2019 siamo partiti, eravamo 5 persone, poi il gruppo si è allargato nel tempo. Con noi viaggiava un furgone di supporto che ci era stato venduto a un prezzo stracciato dalla parrocchia di Castelfranco Veneto (il paese di Sara), per portare l’attrezzatura di scorta e avere un appoggio per tutte le persone che avrebbero camminato con noi… per gli imprevisti del caso. Avevamo previsto di concludere la spedizione in 2 anni, dal 2019 al 2020. Partenza dal Friuli attraverso l'arco alpino, da est a Ovest, passaggio sulla dorsale appenninica e arrivo a Visso, nelle Marche. A metà del Sentiero Italia. Questa prima tranche ha preso 7 mesi. Avremmo dovuto fermarci nei mesi invernali per poi ripartire a inizio marzo e proseguire verso Sud, superare lo stretto e attraversare Sicilia e Sardegna. Con il lock-down, nel 2020, abbiamo deciso di inserire un piccolo pezzo di cammino: due mesi tra Marche Abruzzo Molise e Puglia. Finalmente, nel 2021 abbiamo completato il Sud e le Isole. La voglia di comunità, il desiderio di poter riuscire a tornare a camminare nella natura ci ha fatto gioco. Yuri
Sono Sara Furlanetto, nata a Castelfranco Veneto nel 1993. Ho studiato fotogiornalismo e antropologia. Da giovane studentessa avevo l’ambizione di viaggiare lontano per toccare temi caldi, con l’interesse per l’esotico, poi la spedizione sul Sentiero Italia mi ha fatto cambiare prospettiva e mi ha messo di fronte alla possibilità di utilizzare lo strumento fotografico per temi più vicini che prima non conoscevo. Il mio contributo nel progetto è stato di documentazione fotografica dell’esperienza che abbiamo vissuto e delle realtà che abbiamo intercettato, e nella conduzione della comunicazione digitale.
In altre parole, facilita l’attivazione di idee, progetti, sperimentazioni, processi e politiche finalizzate allo sviluppo del senso di appartenenza delle persone verso l’organizzazione in una prospettiva consapevole, intenzionale e concreta. Un capitale oggi strategico per sopravvivere alla crisi strutturale di offerta di lavoro che colpirà l’Italia nei prossimi anni.
Più operativamente, i 4 verbi sono l’opportunità nei nostri percorsi per avviare un processo di co-individuazione organizzativa che porta le persone coinvolte a dare una declinazione personale e professionale della leadership e identificare parole, comportamenti e azioni con cui rafforzare la loro generatività.
1. La leadership generativa è desiderante
Il primo passaggio è dedicato al desiderio e al chiedersi come\quanto l’organizzazione sia oggi “desiderante”. A partire dalle diverse letture sull’affascinante etimo della parola, è questa l’occasione per introdurre un tema fortemente contro-culturale quale l’assoluta distanza del desiderio da qualsiasi forma di determinismo e proprietà. Attraverso momenti maieutici si inizia a distillare il significato per il gruppo del primo verbo e una declinazione in proposte e precetti per rendere l’organizzazione più capace di promuovere e accogliere il desiderio. Una volta facilitata l’emersione della lettura del gruppo, proponiamo loro uno “strumento\processo”, il Circolo del Desiderio (vedi grafico a seguire) e li accompagniamo in una prima esperienza di “utilizzo” attraverso tecniche di mindfulness.
GeneravivoL'abitare generativo fondato su fiducia e condivisione
Matteo Sana
direttore Sviluppo e Innovazione Sociale in È.one abitarègenerativo S.r.l. Alla presidenza di Abitare Condividere Coop. Edilizia, sta guidando la progettazione e realizzazione condivisa dell’iniziativa di abitare generativo Generavivo Bergamo via Guerrazzi.
La matrice aiuta a rileggere l’organizzazione rispetto a 4 dimensioni relazionali presenti in ogni ente strutturato (funzionamento dell’impresa; persone e relazioni; territorio e contesto, generazioni future) e a 3 ambiti di cura, espressi in altrettante domande:
1) Cosa facciamo per permettere alla vita di continuare
2) Cosa facciamo per permettere il fiorire delle potenzialità
3) Cosa facciamo per permettere la cucitura delle ferite
A titolo meramente esemplificativo (ed esemplare) la matrice aiuta a evidenziare se e cosa fa l’organizzazione per cucire le ferite che la sua azione (o quella di altri) ha generato rispetto alle generazioni future, affrontando il tema della sostenibilità integrale in una prospettiva concreta di sollecitudine e dedizione, non per compliance o calcolo economico. (che restano driver significativi e rilevanti, sia ben chiaro!).
Grazie alla postura epimeletica, il percorso aiuta a rileggere e a risignificare tanti temi e strumenti tipici delle teorie della leadership e dello sviluppo organizzativo: dal Diamante di Koestenbaum per dotarsi di una visione evolutiva esplicita e responsabile ai quadranti della leadership situazionale e alla cultura del feed back per far crescere le persone nell’organizzazione; dallo sviluppo di presidi e dispositivi collettivi di cura delle persone (non più risorse umane) al ripensamento del welfare aziendale in una prospettiva integrale e territoriale (es. sostegno ai lavoratori nel loro ruolo di caregiver).
Il paradigma della generatività sociale illumina una possibile traccia di trasformazione anche del rapporto tra organizzazione e conoscenza. Sempre in collegamento con il lavoro di Bernard Stiegler, il “prendersi cura” riguarda anche la capacità dell’organizzazione di essere noetica , cioè di produrre e condividere conoscenza , al suo interno e nel contesto esterno, locale e globale. Nella visione del filosofo francese è questa la cura per contrastare la dinamica entropica tipica delle contemporaneità, per consolidare i legami tra persone nel mondo disarticolato dall’ideologia individualista, per generare intelligenza vivente che faccia da guida all’intelligenza artificiale.
Nell’ambito della singola organizzazione significa mettere in luce principi, strategie, processi, ruoli, luoghi, tempi e strumenti per
- rileggere la formazione interna come occasione di crescita personale e protagonismo dei singoli;
- garantire spazi di proposta, sperimentazione e crescita attraverso l’errore;
- favorire pratiche di scambio e collaborazione tra generazioni, che valorizzino le passioni, i ricordi e i vissuti, non solo al know-how tecnico o organizzativo;
- patrimonializzare le conoscenze interne non solo per favorire la crescita interna, ma per consolidare le relazioni tra persone al suo interno;
- mettere a disposizione cioè che l’ente sa degli attori, locali o di rete.
Last but not least, serve a favorire processi regolari di co-individuazione aperte e plurime del senso che guida organizzazione e tiene insieme i singoli, e processi di trasformazione interna della struttura e delle attività per rendere il corpo dell’ente coerente e coordinato rispetto a ciò che lo ispira, cioè la sua dimensione spirituale. A nostro avviso una delle pratiche fondamentali per avere oggi organizzazioni sane in cui lavorano persone soddisfatte.
Il Circolo del Desiderio aiuta a rendere l’organizzazione più capace di creare al suo interno il “vuoto”, un tempo e uno spazio adeguati, ma anche necessari a far emergere un desiderio personale legato alla propria organizzazione. Per farlo serve favorire lo thaumazein degli antichi greci derivante dall’incontro con l’Altro; in altri termini l’“esperienza estetica” teorizzata da Ugo Morelli . Un compito arduo nelle tecno-strutture attuali piegate alla performance, all’efficienza e alla competizione… Anche perché non basta allestire contesti adatti: serve anche accompagnare i singoli desideranti in un percorso che passa “dall’io al noi”, anche qui per nulla automatico né obbligatorio: non necessariamente si desidera, non per forza si intende esplicitare e mettere in comune, non è scontato che i desideri dei singoli convergano in un desiderio condiviso.
E ancora non ci siamo: il desiderio condiviso è riconosciuto come un “desiderio organizzativo”, cioè una spinta a rivitalizzare l’organizzazione? Qui si tocca con mano la potenza (a nostro avviso) dell’incontro tra leadership e generatività sociale. Perché spetta a chi detiene la libertà\responsabilità delle scelte decidere se attivare il processo e, ancor più, se quanto ne scaturisce è capace di immettere più vita nel contesto.
Quello che però si può raggiungere è di grande, forse massimo valore, per le organizzazioni di oggi: è l’incontro e il rispecchiamento, l’ibridazione e l’imbricamento tra le traiettorie dei singoli e quella dell’organizzazione: non per tutti, ma per molti; non per sempre, ma fino a che durerà la “forza del tendere” che è tipica del desiderio. Quando questo accade, allora esiste un “senso integrato”, cioè una forza centripeta che attrae e aggrega le persone “che sono e fanno” l’organizzazione quotidianamente, riconoscendo e rispettando la singolarità di ognuno ma riconducendola a una sintesi collettiva che immette “più vita” nel contesto interno.
Ivan Vitali
Direttore Amministrazione-Finanza-Controllo in È.one abitarègenerativo S.r.l. si occupa di amministrazione, finanza e controllo e di consulenza e sviluppo di progetti sociali con enti no profit e for profit.
ECOSISTEMA
4. La leadership generativa è educante e intergenerazionale
Il quarto verbo, il “lasciar andare”, è il più “scomodo” in un mondo in cui possedere cose e persone è sinonimo di potere e successo e in cui la morte è stata espulsa dal discorso pubblico.
Tuttavia senza il “lasciar andare” tutto il processo generativo fallisce, ribaltandosi in dominio, controllo, dipendenza reciproca. Solamente se si è capaci di lasciare andare, ovvero di fare i conti con la perdita, il mettere al mondo non cade nella narcisistica affermazione di sé e il prendersi cura non soffoca ciò che è stato messo al mondo.
Di nuovo misuriamo la potenza contro-culturale della generatività sociale applicata alla guida delle organizzazioni contemporanee.
Essere leader comporta la consapevolezza che il proprio valore aggiunto nel far crescere l’organizzazione è decrescente. Di più, con il passare del tempo e la maturazione dell’organizzazione, l’obiettivo è permettere che la propria “figlia” esprima appieno il suo potenziale, il suo carattere, la sua vocazione. Grazie a una crescente auto-determinazione, cioè attraverso la valorizzazione del contributo delle persone che man mano entrano nell’ente, ma anche grazie all’incontro con altri: consulenti, manager, partner, committenti, ecc. La leadership generativa è caratterizzata da una postura educativa che spinge a lasciar spazio, a parlare sempre meno e ascoltare sempre più, a passare dal dire come si fa al chiedere come farebbero gli altri fino al lasciar fare. Non è semplice delega, che fa parte degli strumenti della cura: è un esserci, essendoci sempre meno, fino ad andarsene.
In questa prospettiva, il rapporto tra le generazioni nelle organizzazioni attuali, caratterizzate in alcuni casi da 4 gruppi diversi per cultura e linguaggi va oltre il tema, la retorica e i fallimenti legati al ricambio generazionale.
L’intergenerazionalità non significa rottamazione, né presa violenta del potere; non suscita horror vacui né sollecita sete di potere o deficit di autostima. Non è un tema che si pone ad un certo punto, a volte quando è troppo tardi. Non cade nella trappola del “nessuno si fa avanti” (ma forse nessuno hai mai fatto spazio), così come non accetta la risposta “non ci hanno mai detto che potevamo farci avanti”….
Perché l’intergenerazionalità è una postura libera e responsabile, in primis di chi guida, che viene assunta per il bene dell’organizzazione in maniera esplicita. Significa costruire un dialogo continuo che riconosce le diversità di ruolo, età, esperienza e la pone in una relazione che accetta la dialettica e il conflitto come parte positiva e necessaria per la crescita di tutte le parti in causa.
E’ la necessità di passare il testimone, lasciando in eredità ad altri, per garantire vita lunga e felice alla propria creatura.
E’ la gioia di consegnare un patrimonio da fare crescere e sviluppare, per permettere a ciò che si è generato di acquisire spazio, autonomia, libertà e responsabilità: di librarsi nel vento e, in teoria, di portare in eterno il ricordo del contributo di chi è passato prima. E’ l’opportunità di utilizzare lo spazio che si crea tra sé e l’organizzazione per creare un nuovo vuoto in cui accogliere un nuovo desiderio e, di nuovo, tornare a generare, a qualsiasi età.
Nel concreto, nei gruppi che abbiamo seguito le riflessioni portate hanno aperto a tre possibili traiettorie di azione:
1) forme di valorizzazione delle risorse “molto senior”, cioè vissute come un peso, se non oggi a breve all’interno di un rinnovato patto organizzativo inter-generazionale per cui invece di venire espulsi per superati limiti di età, è stato immaginato un ruolo di tutore\mentore anziano per le generazioni seguenti, sia rispetto al ricambio della governance, sia rispetto all’ingresso dei nuovi. Soluzione che a fronte di una diminuzione di tempo, potere e remunerazione, può permettere un prolungamento nella capacità di generare valore
2) forme di esplicitazione dei modi e dei tempi per lasciar andare, ex ante e durante la piena attività nell’ente, propedeutici a garantire consapevolezza di tutti gli attori interni sulla “necessità” di questo passaggio, e quindi a costruire cultura e strumenti per gestire il momento al meglio per tutti i soggetti coinvolti: chi lascia, chi resta e l’organizzazione
3) forme di impegno “capacitante e contributivo” a sostegno delle generazioni successive non solo rispetto a soluzioni innovative di give back una volta lasciato andare, ma anche ex ante, per permettere a chi resta di avere garantite le stesse possibilità di partecipare alla crescita dell’organizzazione (e quindi di assumere crescente responsabilità e libertà con annessi oneri e onori), sia mettendo a disposizione opportunità e risorse, ma anche identificando e rimuovendo eventuali ostacoli che impediscono la piena espressione di chi segue.
Anche in questo caso, si può intuire il potenziale contro-culturale della leadership generativa rispetto agli attuali modelli gerarchici, in cui la permanenza al vertice è un valore in sè e l’occasione per estrarre il massimo dall’organizzazione, a fronte di un “tasso di contribuzione” decrescente. Fino a quando non si viene espulsi “con violenza”, innescando crisi di senso, percezione di inutilità e ingiustizia e patologie depressive.
5. Conclusione (e rilanci)
Il percorso compiuto all’interno della prospettiva della leadership generativa si conclude con un ultimo incontro in cui le proposte e i precetti che man mano emergono dalle riflessioni sui 4 verbi trovano una sintesi nel “Manifesto per una nuova leadership”, un documento ispirativo e operativo allo stesso tempo, che testimonia la volontà e l’impegno reciproco del gruppo di cambiare il loro modo di agire la leadership, “da oggi in avanti”.
Il manifesto è già un primo atto trasformativo per le organizzazioni, che raramente si soffermano a riflettere su questo tema chiave e ancor meno frequentemente si dotano di documenti scritti che vadano oltre l’enunciazione di valori generali (per lo più disattesi nella pratica).
Allo stesso tempo la forma scritta e la sua natura “condivisa” (ai soli firmatari ma a volte con tutte le persone all’interno dell’organizzazione) sono esemplari perchè vincolano a livello fiduciario gli autori e le autrici a impegnarsi vicendevolmente e verso l’organizzazione per la sua realizzazione, ma non rispetto alla piena attuazione. Il Manifesto è infatti un patto, non un contratto. Gli estensori aprono così alla possibilità che altri facciano un passo avanti, in modo concreto , in risposta del Manifesto o in percorsi autonomi.
Infine, i contenuti del Manifestano possono diventare “cantieri di trasformazione", dentro e fuori l'organizzazione, avviati in base a criteri di priorità quali la magnitudo (capacità di cambiare significativamente le cose) e la fattibilità (presenza delle condizioni e delle risorse per realizzarlo).
L’obiettivo è iniziare il prima e il più efficacemente possibile a far “percolare” la nuova cultura della leadership nella quotidianità dell’azione organizzativa. E qualora alcune delle traiettorie di azione fossero legate ad attori esterni, provare ad irradiare concetti e pratiche anche nel contesto esterno, per provare a moltiplicare l’effetto trasformativo e, in alcuni casi, per intervenire su eventuali vincoli esterni che limitano il pieno dispiegamento del potenziale generativo (es. clienti con una cultura estrattiva e inumana di pura massimizzazione dei tempi e dei costi).
Così come il percorso dedicato alla leadership generativa è solo un’occasione per andare “verso l’infinito e oltre”, come ci insegna Buzz Lightyear, nelle organizzazioni che si affidano al nostro accompagnamento, anche questo nostro contributo va letto come figlio del desiderio di condividere quanto pensato e agito in questi anni, consapevoli della sua limitatezza e incompletezza con chi sarà interessato a percorrere un pò di strada insieme. “Da soli si va più veloci, ma insieme si va più lontano”.
Ciò che ci interessa, quindi, quando proponiamo i nostri percorsi sulla leadership generativa è porre domande, aiutare a risignificare parole, pro-vocare discussioni e immaginari, far emergere proposte di azione condivise e collettive, “per e con” le persone che vogliono (prima che possono) agire la leadership all’interno di un determinato contesto: sia una business unit di una impresa profit, una comunità educante, un cda di una fondazione di origine bancaria, lo staff di un ente del terzo settore, una rete di attori territoriali, i dipendenti di una direzione comunale o gli “abitanti” di una spazio ibrido rigenerato.
Nella piena ed esplicita assunzione di libertà\responsabilità che questo loro “alzarsi in piedi, prendere parola e agire” comporta.
La Leadership Generativa, nome tra l’altro già in uso in inglese , è quindi una postura e un approccio più che una teoria o un manuale di istruzioni.
Nella nostra traiettoria, partiamo da alcuni assunti:
1) che il ben-vivere di ogni persona nasce dall’integrazione (sempre dinamica) tra le 4 dimensioni individuali - Mente, Cuore, Corpo e Spirito - e l’Altro da sè, ovviamente inteso non solo come altri essere umani, ma anche il tempo (il passato e il futuro), lo spazio umanizzato, la natura e il mistero della vita.
2) che le forme organizzative che gli esseri umani hanno sviluppato nel tempo sono espressioni viventi dei loro pregi e difetti, limiti e potenzialità, visioni e allucinazioni; non sono macchine (e di certo non sono perfette!) in cui ognuno di noi è un semplice ingranaggio.
L’assunzione della postura della leadership generativa comporta innanzitutto il riconoscimento (e spesso il riconoscersi) nel parallelismo biologico tra forme organizzative sociali e la metafora biologica alla base dei 4 verbi della generatività sociale: Desiderare, Mettere al mondo, Prendersi Cura e Lasciar andare. I 4 verbi aiutano non solo a capire in che fase ci troviamo (Vitale, Imprenditiva\Creativa, Organizzativa o Transitiva), ma a porre i temi della crescita, del cambiamento e della rivitalizzazione in una prospettiva nuova.
Usando una metafora, la leadership generativa è per le organizzazioni come l’arte “del filo e del fuso” che per millenni ha permesso di filare la lana usando solo la forza di gravità e le mani. Il senso integrato si dà quando la forza misteriosa che dà tensione ai desideri dei singoli (le fibre di lana) incontrano l’intelligenza delle mani, che con un abile gioco di polpastrelli torcono le fibre, di per sé fragilissime, in un solo filo così resistente ed elastico da poterci realizzare l’habitus dell’organizzazione, cioè la sua cultura profonda e il suo stile unico e distintivo, parafrasando Pierre Bourdieu, in cui le persone tenderanno a riconoscersi e a sentire proprio, perché da loro generato.
2. La leadership generativa è imprenditoriale e creativa
Il secondo verbo, il mettere al mondo, viene introdotto inizialmente per differenza dal primo: se il desiderio è qualcosa che non ci appartiene e che non possiamo predeterminare, il mettere al mondo è una scelta intenzionale e consapevole (come anche i successivi due verbi). Il desiderio ci coglie, ci trapassa e ci spinge a fare “un passo avanti”, così come la promessa dell’abbraccio del genitore spinge il bambino a correre il tremendo rischio di alzarsi in piedi e camminare.
La seconda riflessione riguarda la differenza tra generare, produrre e creare. La metafora biologica sottolinea la “superiorità” dell’atto generativo: dall’incontro di due infinitamente piccoli, nasce una forma di vita complessa, sia essa una pianta o una persona; nel secondo caso si fa ricorso alle “materie prime” per costruire qualcosa che non esiste e che è sintesi di quanto utilizzato, ma si producono scarti e entropia. In un certo senso si perde quantità e qualità. Produrre è importante e di valore, ma non è un sinonimo. L’atto creativo umano è invece puntualmente individuale, per quanto legato all’Altro da sé, perché “noi siamo relazione”. Tuttavia non si può fare in modo di avere la stessa idea, visione, intuizione nello stesso momento: se accade è un caso (o un segno del destino o altro per chi vuole leggerla così).
Il mettere al mondo è quindi legato all’intenzionalità di “andare oltre a sé” e all’indissolubile nesso tra libertà di creare e responsabilità per quello che si è creato. Se questo è di immediata declinazione per la fase di “start-up” di un progetto, più sfidante è ricondurre al tema le organizzazioni strutturate o addirittura le istituzioni.
Come creare spazio e tempo, le risorse scarse del tempo di oggi, per favorire la creatività interna? E’ questa la domanda guida che ci aiuta a riflettere sulla natura dell’imprenditorialità come una specifica competenza e sull’effettiva esistenza di una cultura imprenditiva (e di conseguenza del fallimento come valore). Inoltre, si discute sulla presenza ed efficacia di dispositivi di imprenditorialità interna (cd Intrapreneurship) o di open innovation, non solo nell’ottica di sviluppare il business, lo scopo di interesse generale o l’attività istituzionale, ma anche applicato ai processi interni o al coinvolgimento degli stakeholder esterni.
In questo caso lo strumento proposto è il framework dei 3 assi della generatività sociale, cioè:
- INTERTEMPORALITA’: la dimensione temporale, ovvero l’effetto di durata dell’impresa generativa nel tempo
- INTERSOGGETTIVITÀ: la dimensione relazionale, ovvero la capacità di mobilitare, coinvolgere e capacitare altri a prendere parte e proseguire l’iniziativa generativa
- CONTESTUALITÀ: la dimensione contestuale, ovvero la capacità di ispirare nuove iniziative e a stimolare il cambiamento del contesto circostante
I 3 assi e le sottostanti 15 dimensioni aiutano attraverso “domande guida” a mettere a fuoco la ricchezza qualitativa dell’esistente e la varietà delle potenziali traiettorie future. La sua applicazione, infatti, permette al gruppo coinvolto nel percorso di leadership generativa di valutare quanto le proprie pratiche per agevolare il mettere al mondo, ma anche se ciò che viene messo al mondo è coerente con la prospettiva che muove il paradigma.
Qui il valore per l’organizzazione è duplice: da un lato i 3 assi sono una potente mappa diagnostica per valutare ciò che c’è; allo stesso tempo sono uno strumento strategico che aiuta a identificare dove si vuole “migliorare” per aumentare la generatività interna ed esterna, e come farlo.
L’applicazione della matrice non ha in alcun modo natura di misurazione oggettiva né intende definire ranking o dare “bollini” di generatività. E’ una strumento ispirativo e strategico che sollecita l’immaginazione e la motivazione di chi la usa per spingere un passo avanti l’organizzazione e farne un attore capace di generare sempre più “valore condiviso” per sé e per il maggior numero di stakeholder, interni ed esterni.
L’organizzazione che si avvale dei 3 assi diventa consapevole al suo interno e rende evidente al suo esterno le “qualità generative” della sua azione. Può così verificare se e come il suo “senso”, cioè il “significato” della sua esistenza e la “direzione” verso cui è in movimento siano generativi. Nel caso la risposta sia positiva (e la valutazione è in primis in capo alla leadership!), l’organizzazione sarà dotata di un senso integrale, ossia “la capacità di unire ciò che è diverso, di coltivare il sé e di custodire i legami con gli altri, con il mondo e con il mistero della vita”.
La leadership generativaovvero una prospettiva sul potere di generare libertà e responsabilità nelle organizzazioni contemporanee
Già dalla scelta del pronome interrogativo che apre la nostra domanda di ricerca emerge come l’oggetto della ricerc-azione sia la leadership come competenza presente in ognuno di noi, multidimensionale (es. visionaria, di cura, eroica, ecc.) e diffusa nei contesti sociali, non il leader, cioè un singolo individuo, straordinario e diverso dalla massa perché dotato di poteri messianici o taumaturgici.
In secondo luogo quanto qui descritto non vuole essere una nuova teoria della leadership (ne esistono già decine…), ma una rilettura di parte dell’esistente: dal lavoro del filosofo Peter Koestenbaum alla leadership situazionale e a quella sistemica, dalla leadership umile di Edgar Shein ai 6 stili di leadership di Goleman; ognuna con i propri concetti, processi e strumenti.
Quello che ci muove, infatti, è capire come il paradigma della generatività sociale possa illuminare una traiettoria nuova, tre le mille proposte e strumentazioni, che diventi una proposta di lavoro collettivo, contro-culturale e condiviso - con le persone, le organizzazioni, i territori e le comunità – attraverso cui immaginare, raccontare e realizzare un cambiamento del modello di sviluppo attuale, evidentemente inadeguato alle sfide della Supersocietà.
Guardando in una prospettiva storica i grandi cambiamenti sociali, così come la diffusione delle innovazioni tecnologiche , possiamo affermare che siano stati fenomeni popolari e collettivi più o meno rapidi, violenti e consapevoli, il cui innesco è riconducibile ad “avanguardie profetiche” capaci di vedere il nuovo prima di altri, e a volte anche di agire scientemente per una sua diffusione.
3. La leadership generativa è epimeletica e noetica
Il prendersi cura è il cuore del lavoro che On! fa “per e con” le organizzazioni e, di conseguenza, un passaggio centrale del percorso dedicato alla leadership generativa. Il dialogo si avvia con una riflessione condivisa sull’etimo della parola “cura”, legata alla radice sanscrita kau: «vedere», nel senso di un “modo di guardare la realtà partecipe, attento e concreto”.
Si tratta quindi di introdurre nei contesti organizzativi una dimensione affettiva di rapporto personale con il “lavoro”, inteso non in una prospettiva burocratica-economica come impiego, reddito o posto di lavoro, ma per come Bernard Stiegler lo declina ne “La Società Automatica” : impegno, legame di responsabilità e libertà a fare con e per gli altri.
Una prospettiva dichiaratamente esclusa, se non “proibita”, nella maggior parte delle organizzazioni contemporanee, nella credenza ereditata dal ‘900 che l’essere umano possa venire scisso tra vita privata e vita professionale. (cosa che magari un tempo era anche possibile, ma non certo nell’Italia del XXI secolo) Ma anche non pienamente colta, a nostro avviso, dal dibattito attorno al tema del benessere organizzativo che viene interpretato per lo più in maniera compensativa e puramente tecnica: smart working, part time, piattaforme di welfare, calcio-balilla, ecc. Sia ben inteso, tutte opzioni utili a venire incontro alle esigenze puntuali dei lavoratori, ma che sanno tanto di “indoramento di pillola” o di “concessioni” per attrarre e trattenere la forza lavoro.
Per noi il rapporto tra privato e professionale è, invece, una dimensione chiave per la realizzazione del singolo; è quindi una relazione vitale con due polarità che non si escludono, né possono essere separate, ma anzi vanno tenute in dialogo nel tentativo, sempre temporaneo e imperfetto, di trovare un punto di contatto e sovrapposizione. Un esito che è sempre figlio di una scelta libera e responsabile del singolo.
Il tendere all’integrazione non significa quindi lavorare sempre e comunque, come richiedono i modelli performativi ancora in auge in molti contesti e la stucchevole retorica anni 80 e 90 del “sacrificio”. Così come una cesura netta, una contrapposizione insanabile, porta alla “crisi di senso” del lavoro contemporaneo. Big resignation, quiet quitting, downsizing e turn over sono fenomeni ormai evidenti nel profit, nel non profit e nella PA, di segno ambivalente che testimoniano un problema relazionale.
Quindi “Che fare”?
Il concetto che introduciamo è l’assunzione di una postura epimeletica nelle organizzazioni, cioè dotarsi «della capacità di prestare attenzione, della capacità di fermarsi, di ascoltare e di osservare e della capacità di appassionarsi e dedicarsi». In ogni cosa che si fa. Questa nostra visione viene condivisa con i partecipanti del percorso attraverso una rilettura della “teoria del flow” applicata alle definizioni di “senso integrato” e di “senso integrale”. Nel concreto aiutiamo i partecipanti a richiamare esperienze passate di avvicinamento e incontro tra traiettoria privata e percorso professionale e a condividere con gli altri i fatti e il vissuto di quello “stato di grazia”. Questo apre il gruppo alla consapevolezza della possibilità di definire come compito prioritario dell’organizzazione il creare le condizioni perché tutti possano trovare modi e tempi per cercare il proprio equilibrio (metastabile) “tra dentro e fuori”.
Da questa prospettiva, che chiamiamo “well-working”, il percorso invita prima a rileggere ciò che l’organizzazione fa per prendersi cura del contesto in una prospettiva generativa, cioè:
a) Dando attenzione
b) Prendendo a cuore
c) Impegnandosi al fianco
Qui lo strumento utilizzato è la Matrice della Cura che nasce dall’incontro tra la generatività sociale e il “paradigma della cura” che guida il lavoro di Contatto APS, realtà sorella attiva su Taranto e nata all’interno dell’ecosistema francescano.
L’abbiamo fatto in contesti molto diversi: da sindacati di bancari alla ricerca di un nuovo senso, a imprese metal-meccaniche friulane che affrontano il ricambio generazionale; da territori alla ricerca di una sostenibilità per il proprio welfare locale a cooperative sociali desiderose di dotarsi di una visione trasformativa sul contesto locale, fino a multinazionali della consulenza.
Quanto qui di seguito è un primo tentativo di sintesi, una prima proposta per un percorso di riflessione sul senso e l’essenza di una leadership generativa, che è solo agli inizi, e che oscilla tra pensiero e azione, tra teorie e pratica, tra deduzione e induzione, viste sempre come due polarità all’interno delle quali muoversi intenzionalmente alla ricerca di un equilibrio metastabile.
Innanzitutto, alcune premesse.
di È.One Abitarègenerativo s.r.l.
I 4 verbi aiutano:
- a ricollegare ciò “che si è e si fa” alla scintilla scaturente, all’incontro fondativo per ritrovare senso e coerenza o dotare l’organizzazione di uno scopo\purpose o almeno di una strategia di impatto;
- a interpretare l’innovazione fuori da un contesto meramente tecnico-funzionale ed elitario, per rileggerla come pratica collettiva, aperta e trasversale per affrontare il mondo VUCA .
- le organizzazioni destrutturate a capire che se si vuole esprimere appieno il proprio potenziale trasformativo, occorre crescere prendendosi cura dell’organizzazione stessa (per esempio rendendola adeguata a sfide interne o esterne o lavorando sulla chiarezza di ruoli e responsabilità o dando coerenza e concretezza ai valori aziendali)
- le organizzazioni strutturate a interpretare il prendersi cura delle persone che vi lavorano non solo rispetto al loro benessere in ottica compensatoria rispetto ai “sacrifici” richiesti, ma sviluppando un approccio integrato che favorisca un sano e positivo rapporto tra lavoro e vita personale (cd well-working).
Infine, pongono i leader (qui intesi in senso gerarchico) davanti alla realtà della loro “utilità marginale decrescente” per l’organizzazione con il passare del tempo, anche per un semplice tema biologico-anagrafico, ma anche al fascino di creare spazio per nuovi desideri, invece di abbandonarsi all’horror vacui legato al “dopo di me”.
Crediamo utile sottolineare, a costo di essere scontati, come tutte le traiettorie nate dai verbi convergano nel produrre valore esistenziale per le organizzazioni contemporanee perché creano occasioni concrete di coinvolgimento e attivazione delle risorse interne, non solo rispetto al tema del benessere organizzativo, ormai al centro di numerose riflessioni e pratiche, ma anche rispetto alla contribuzione di ognuno alla definizione del senso che guida l’azione dell’ente, all’identificazione e alla realizzazione di priorità di cambiamento, alla costruzione di una cultura aziendale condivisa, esplicita e non tossica, ecc.
"In questi 7 anni di lavoro collettivo in On! e nell’ecosistema della generatività sociale abbiamo più volte provato a rispondere alla domanda: come possiamo guidare e (guidarci) verso un modello di sviluppo più equo e sostenibile?.
Chiara Nogarotto
sociologa, coordinatrice della funzione marketing e comunicazione, coordinatrice di progetto nella funzione di community design per È.one abitarègenerativo S.r.l. Sociologa, si è laureata in Scienze sociali e organizzative e in Politiche pubbliche presso l’Università Cattolica di Milano.
di Giovanni Petrini,
Antonio Romani,
Sara Sampietro
Silvia Vivaldi
Soci di On! Trasformazioni generative
di Ugo Morelli
Psicologo e studioso di scienze cognitive . Insegna Scienze Cognitive Applicate all’Università Federico II di Napoli. Il suo prossimo libro con Vittorio Gallese è “Cosa significa essere umani”, Raffaello Cortina Editore, Milano 2024.
Ragione poetica e vulnerabilità
Potremmo chiamare ragione poetica la via per la quale l’unicità di ognuno risuona con la molteplicità della vita. La risonanza implica la vulnerabilità, la disposizione a farsi raggiungere. Sentire è essere vulnerabili. Se sia possibile accreditare un’interpretazione e una prassi relazionale generativa della vulnerabilità è uno dei temi cruciali del nostro tempo. Qualora almeno per certi aspetti lo fosse, avremmo trovato una via in più per avvicinarci alla ragione poetica, a capire come si esprimono le nostre potenzialità, come cioè manifestiamo le nostre forms of vitality (D. Stern, Forms of Vitality, Oxford University Press, Oxford Mass. 2010; ed. it. Raffaello Cortina Editore), ovvero come accada che riusciamo a generare, creandolo, quello che prima non c’era, elaborando l’angoscia che la bellezza del solo concepirlo ci produce (L. Pagliarani, Il coraggio di Venere, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003); come, insomma, facciamo i conti con l’amore e il timore della bellezza (D. Meltzer, W. Mag Harris, Amore e timore della bellezza, Borla, Roma1989). È importante perciò domandarci se nell’intersoggettività umana vi siano contingenze, situazioni, processi, momenti, in cui le relazioni possano essere vantaggiose e emancipative per le persone coinvolte, nel momento stesso in cui si aprono a una certa vulnerabilità e se quest’ultima non abbia a che fare con qualche dimensione costitutiva della relazione stessa, tale da rendere, in fondo, possibile, la stessa relazione. Seppur gli uni agli altri irriducibili, di fatto ci generiamo nelle relazioni intersoggettive, e allora non dovrebbe essere del tutto inutile cercare di comprendere se quella costitutiva accessibilità non sia intimamente connessa a una nostra penetrabilità da parte degli altri, che è accoglienza e violazione allo stesso tempo, e che certo si situa senza soluzioni di continuità con l’estremo della distruttività, che pure dalla vulnerabilità deriva, ma, come si potrebbe tentare di dire, si ferma prima di generare il male e di distruggere, per diventare combinazione generativa di io e altro, dove ognuno di noi è accolto almeno in parte, senza perdersi ed esaurirsi in quella accoglienza, nel ventre cavo dell’affettività altrui. Come musica che ci raggiunge non senza turbare e senza violare in una certa misura il nostro stato emozionale, e che, se fossimo invulnerabili, non troverebbe via per penetrare in noi e fecondarci con la sua fertile armonia, alla stessa maniera nell’articolata e incerta dinamica delle relazioni noi siamo raggiunti dagli altri nell’infinito gioco di autonomia-dipendenza, in quanto apriamo spazi per accoglierli, e in quel vulnus loro entrano per divenire almeno in una certa misura, e magari per un certo tempo, somiglianti a noi. Entrano in parte incontrandoci e in parte ferendoci, in parte confliggendo e in parte cooperando con noi, laddove non si dà, probabilmente, un incontro senza violazione e non si dà una cooperazione senza conflitto. Se per conflitto si intende l’incontro generativo tra differenze e non l’antagonismo e la guerra, come ci pare opportuno intendere (U. Morelli, Il conflitto generativo. La responsabilità del dialogo contro la globalizzazione dell’indifferenza, Città Nuova Editrice, Roma 2014). Nel continuo processo di individuazione del proprio bodily self, ognuno di noi elabora, tra i vincoli e le possibilità dell’alterità costitutiva - attraversando le relazioni che ci precedono e in cui prendiamo forma e ci generiamo - le dinamiche della simulazione incarnata (embodied simulation) che, anticipando e sostenendo i nostri stessi sentimenti e la nostra stessa cognizione, compongono l’evoluzione delle nostre vite (V. Gallese, Bodily Self e schizofrenia, Congresso FIAP 2014, Riva del Garda, 2-5 ottobre). Quel processo di cognizione corporea è il tappeto mobile su cui si muovono le incerte dinamiche del nostro divenire noi stessi e le piccole grandi ferite, insieme alle conferme gratificanti, con cui ci incontriamo nelle relazioni con gli altri, sapendo che le prime e le seconde possono essere emancipative o distruttive per noi, a seconda di come riusciamo ad elaborare la loro ambiguità. Se pensiamo al linguaggio, non è difficile riconoscere come comprenderci significhi dire quasi la stessa cosa. Nel quasi si situa il processo di cooperazione interpretativa (H. R. Jauss, Toward an Aesthetic of Reception, University of Minnesota Press, 1982), che genera i significati condivisi, approssimativi – nel senso dell’avvicinarsi e dell’accomodare le differenze – e provvisori. In quel quasi alberga la vulnerabilità che rende possibile comprendersi, nel duplice senso della vulnerabilità dei significati e dei limiti invalicabili del linguaggio, unitamente alla relativa combinazione e fusione emergente dei significati condivisi. È probabilmente per quelle vie che si definisce il margine generativo presente in ogni contesto e situazione e capace, se trattato con ragione poetica, di generare l’inedito, realizzando una volta ancora una distinzione specie specifica che ci rende umani (V. Gallese, U. Morelli, Cosa significa essere umani? Corpo, cervello e relazione per vivere nel presente; Raffaello Cortina Editore, Milano 2024).
Vagabondaggio mentale
Un vagabondaggio mentale (mind wandering), secondo l’ipotesi di Elkhonon Goldberg (Creativity. The Human Brain in the Age of Innovation, Oxford University Press, New York 2018), caratterizza la nostra accessibilità ai margini e alle possibilità generative fondate su atti creativi. Nel nostro tempo novità e innovazione sono divenute esponenziali; la creatività umana sembra aver oltrepassato i confini dell'arte per trovare espressione nella tecnologia, chiamando ciascuno di noi a confrontarsi quotidianamente con nuove esperienze. Ma di che cosa parliamo quando parliamo di creatività? Sinora né le neuroscienze né la psicologia sono riuscite a dare conto di quello che rimane in buona parte un affascinante problema. Le neuroscienze, interagendo con l'antropologia, la biologia dell'evoluzione, la psicologia, la storia e, naturalmente, la psichiatria si chiedono qual è il ruolo della fisiologia e dell'anatomia nella generazione della creatività. Perché il funzionamento delle aree cerebrali è condizione necessaria seppur non sufficiente per cercare di comprendere l’attività creativa. I risultati disponibili, per quanto parziali, ci inducono a parlare sempre di più di creatività condivisa e a considerare la dimensione relazionale ed estesa della mente come humus indispensabile per la creatività e l’innogenesi.
PENSIERO
Senso del possibile
Se pensare è, forse, una delle attività più difficili per noi esseri umani, pensare l’inedito, oltre le consuetudini e i paradigmi esistenti e dominanti è ancora più impegnativo. Certo non è impossibile, per una specie che compone e ricompone in modi almeno in parte originali i repertori del mondo lungo tutta la propria storia. Come scrive in modo al solito inimitabile Robert Musil: “Chi voglia varcare senza inconvenienti una porta aperta, deve tenere presente il fatto che gli stipiti sono duri: questa massima alla quale il vecchio professore si era sempre attenuto è semplicemente un postulato del senso della realtà. Ma se c’è il senso della realtà esiste, e nessuno può mettere in dubbio che la sua esistenza sia giustificata, allora ci deve essere anche qualcosa che chiameremo senso della possibilità. Chi lo possiede non dice, ad esempio: qui è accaduto questo o quello, accadrà, deve accadere; ma immagina: qui potrebbe, o dovrebbe accadere la tale o talaltra cosa; e se gli si dichiara che una cosa è com’è, egli pensa: be’ probabilmente potrebbe anche essere diversa. Cosicché il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe egualmente essere, e di non dare maggiore importanza a quello che è, che a quello che non è” (L’uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1996; p.13).
Per un essere umano non c’è altro futuro
al di fuori di quello che l’arte promette”
[Iosif Brodskji]
Precisione e immaginazione
Filolao, che sembrerebbe essere stato il principale teorico della scuola pitagorica, attorno al 450 a. C., fonda le proprie osservazioni astronomiche su un paradigma musicale. Keplero, nonostante le geometrizzazioni parmenidee e successive, tentò di ricostruire l’“armonia del mondo” ricavandola dalle velocità planetarie osservate. Tutto ciò potrebbe sembrare molto arcaico in confronto ai risultati raggiunti dai tenaci calcolatori babilonesi che avevano preceduto i greci. Ma risultò anche più creativo, in quanto richiamò effettivamente in vita vasti schemi protostorici di pensiero, combinando precisione e immaginazione. A noi che non siamo più in grado di rappresentarci chiaramente che cosa l’antica Grecia intendesse con la parola musiké, essendo ogni forma di pensiero serio formulata in quel “linguaggio poetico” che era proprio, ad esempio, di Anassimandro, risulta rivoluzionario riconoscere l’interdipendenza e l’integrazione tra poiesis e logos. Musiké non era solo un’esperienza estetica, quale noi la intendiamo, ma un’attività strettamente legata a quanto vi è di poetico e di etico nell’uomo: qualcosa che agisce sull’anima e la trasforma. C’è voluta la ricerca neuroscientifica per aprire le porte al riconoscimento, ancora tutto da approfondire, dei fondamenti naturali dell’esperienza estetica, che ne trasforma il senso e il significato. Da una dimensione solo formale ed esteriore, l’esperienza estetica è finalmente riconosciuta come incarnata e strettamente connessa alla risonanza con gli altri e al mondo, in grado com’è di estendere le possibilità individuali e relazionali in modi e per vie che senza quelle esperienze non si verificherebbero. Se verso il IV secolo a. C., soprattutto con Platone, l’antica musiké tende a suddividersi nelle due forme più moderne, separando poiesis e logos, la ricerca scientifica oggi ci indica una strada per andare oltre il dualismo e accedere a una ricomposizione più che mai necessaria.
PENSARE OLTRE, PENSARE L’INEDITO
La vita comincia ogni giornoRiflessioni sulla generatività sociale e il potere trasformativo dell'inquietudine organizzativa
TORNA ALL'INDICE
di Patrizia Cappelletti
Sono ricercatrice sociale presso il Centro di Ricerca ARC dell’Università Cattolica di Milano, dove da anni mi occupo di generatività sociale nelle organizzazioni. Svolgo attività di formazione e consulenza per soggetti pubblici e privati.
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In secondo luogo, affermare che “la vita comincia” può aiutarci a contenere il nostro tendenziale senso di (onni)potenza. Se questa spinta espressiva e realizzativa è a suo modo vitale e motore della crescita, essa ha finito per ribaltarsi in una trappola, dilatando a dismisura l’Io e la sua azione sul mondo. Non è un caso se l’aumento della potenza - facilitata dalla tecnologia e oggi dal digitale –finisce per smarrire il senso e la misura, mettendo “a servizio” le persone in una crescita che appare s-proporzionata e dis-umana.
Affermare che la Vita comincia, e non noi, ci aiuterebbe - come impresa - a ritrovare un baricentro.
La vita – sembra dirci Rilke - comincia anche senza di noi, anche prima di noi.
È una prospettiva che tendiamo a dimenticare, ma che, se recuperata, può aprire la possibilità di vedere la vita per quella che è: un accadere gratuito ed eccedente a cui è impossibile rispondere contabilmente, con uno scambio orizzontale e equivalente.
Liberati da un debito, come ricordava Godbout, ci ritroviamo però ad essere corresponsabili della Vita tout court attraverso altre forme di contribuzione. Detto altrimenti: non potendo ripagare all’indietro, non ci resta che condividere in avanti, con altri, per altri e il futuro.
Ciò richiama una dimensione trascendente che fatichiamo a tenere aperta oggi, schiacciati come siamo dalla forza centripeta della contemporaneità sul solo istante. Attratti dalle tante calamite - contingenze, impegni, scadenze, KPI – nelle organizzazioni il rischio è quello di vivere solo nel brevissimo termine come unico orizzonte possibile.
Servirebbe una buona dose di umiltà organizzativa (umiltà rimanda ad humus cioè alla terra) per capire che la Vita comincia.
Ma non è questa, forse, la strada per una sostenibilità autentica, non di facciata?
Infine - è il terzo rilievo - Rilke aggiunge un’ultima pennellata al suo quadro. Ci mette accanto un “ogni giorno” apparentemente banale ma che ci aiuta a capire di più la logica (se di logica si può parlare) della Vita.
Fedelmente, con irrazionale testardaggine, nonostante noi e i nostri limiti, la vita accade ogni giorno.
Nella frase di Rilke c’è una promessa quotidiana: qualcosa che non può suscitare stupore e senso del miracolo. La vita comincia ogni giorno, ci aspetta, puntuale, con nuove possibilità per poter ricominciare anche noi, insieme a lei.
Ogni giorno, senza mancare mai all’appuntamento, la vita comincia.
C’è un che di inspiegabile ed eccedente in tutto questo, a meno di scegliere di restare nel cono d’ombra dell’indifferenza o del cinismo, accontentandosi di vivere a testa bassa a correre sui rulli.
Va Sentiero: camminare, scoprire, condividere
Intervista a Sara Furlanetto
e Yuri Basilicó
GENERAZIONI
INTERNAZIONALE
Tecnologia e Generatività Sociale:
Il pensiero tecno-ottimista di Peter Bloom
A. Rizzo, A.Sancino
LECHLER
La cultura del colore
P. Cappelleti, R. Della Valle
EDITORIALE
LA VITA COMINCIA
OGNI GIORNO
Riflessioni sulla Generatività Sociale e il potere trasformativo dell’inquietudine organizzativa
P. Cappelletti
Hanno collaborato a questo numero:
Coordinamento Scientifico:
Prof. Mauro Magatti,
Dott.ssa PhD Patrizia Cappelletti
ECOSISTEMA
ATTESA DEL TITOLO
attesa del sottotitolo.
G. Petrini
Fondazione GiGroup
strategie e iniziative per superare le disparità di genere per un futuro del Lavoro Sostenibile
Accettare il conflitto
G. Segre
QUESTION TIME
La leadership Generativa
ovvero una prospettiva sul potere di generare libertà e responsabilità nelle organizzazioni contemporanee
On! Impresa Sociale
PENSIERO
Will Media: un’informazione giovane per scoprire il mondo
G. Checchin
VIE
SEGNALI DI BELLEZZA
Pensare oltre,
pensare l'inedito
U. Morelli
L’errore non è stato considerare questi sviluppi come possibili, lo erano davvero nel 1992. Piuttosto pensare che fossero eterni: che il modello di democrazia una volta giunto all’apice non avrebbe avuto bisogno di nient’altro che della propria esistenza per mantenersi un riferimento cardine per l’umanità. Ci siamo dimenticati che quello stesso modello era prosperato proprio perché messo costantemente alla prova del tempo. Era stato forgiato dalla minaccia del totalitarismo, discusso e criticato da quegli stessi pensatori che ne applicavano convintamente i principi.
La democrazia nasceva dal conflitto e solo nel conflitto poteva rafforzarsi.
Tecnologia e Generatività Sociale: il pensiero tecno ottimista di Peter Bloom
Inoltre, la visione proposta da Bloom invita a considerare le nuove tecnologie nell’ambito della governance pubblica come servizi (pubblici) secondo una logica che si discosta da quella tipica dei processi di servitizzazione che paragonava i beni pubblici a quelli privati ed identificava i loro utilizzatori meramente come utenti. In questo contesto, le nuove tecnologie sono invece considerate sia nell’ottica dell’accountability per gli attori pubblici, che hanno il compito di fornire tecnologie funzionanti e soddisfacenti alla società, che siano considerate di valore dai cittadini, sia nell’ottica di processi partecipativi formali ed informali e di co-produzione, la cui importanza si è affermata proprio in seguito al superamento della logica top-down di servitizzazione. Tale superamento ha infatti aperto la strada alla logica imprenditoriale ed a quella collaborativa come forme innovative per il problem solving dove la tecnologia può avere un ruolo abilitante ed innovativo. La stessa sembra infatti assumere, nella logica proposta dall’autore, il ruolo di driver generativo, capace di stimolare il lavoro collettivo di una comunità verso la creazione di valore pubblico, sociale, comunitario. Le nuove tecnologie presenterebbero dunque il potenziale per migliorare gli aspetti democratici e l’empowerment dei suoi membri e permetterebbero di ridefinire in maniera inedita le dinamiche relazionali e collaborative di co-produzione (favorendo, ad esempio, processi open source di problem solving e processi di scambio di dati e di conoscenza tra settori ed attori tra loro differenti) e di accountability.
Il potenziale innovativo della tecnologia, se adeguatamente guidato e gestito, sembra dunque poter favorire lo sviluppo di quei percorsi evolutivi di governance necessari per affrontare i complessi e continui mutamenti che caratterizzano l’attuale contesto sociale, inclusi quelli di accountability e monitoraggio di processi di cattura di valore pubblico. Ad esempio, in un video per Renegade INC, una piattaforma media indipendente che “fornisce ai suoi membri contenuti e connessioni che aiutano a orientarsi nella 'nuova normalità'”, Bloom sostiene che "tutti sappiamo che siamo osservati, ascoltati, tracciati, seguiti e monitorati, ma chi assicura che le persone in posizioni di potere e quelle con monopoli aziendali rimangano responsabili?".
In sintesi secondo Bloom, la tecnologia è una manifestazione delle nostre capacità—ciò che siamo in grado di fare, il che alimenta un senso di ottimismo riguardo al potenziale di progresso umano. Tuttavia, quando analizziamo la tecnologia, il nostro focus dovrebbe essere non semplicemente sugli strumenti in sé, ma piuttosto sulle capabilities che essi abilitano. Questo cambio di prospettiva potrebbe avere implicazioni profonde, in particolare perché le forme tradizionali di organizzazione spaziale sono state riconfigurate. L’avvento delle tecnologie moderne ha infatti alterato il significato della prossimità spaziale, segnando una rottura con le esperienze umane precedenti attraverso la dematerializzazione e rimaterializzazione delle nostre connessioni e interazioni. Questa riconfigurazione è pero’ intrecciata con una logica di coproduzione nelle piattaforme digitali che per ora è guidata più dai progressi tecnologici e dalle dinamiche di mercato che dalle capabilities civiche di cui sopra, che sono invece intrinsincamente legate al concetto di generatività sociale proposto da Magatti e Giaccardi (2014).
di Fondazione GiGroup
Fondazione Gi Group studia, approfondisce e sviluppa pensiero e pratiche per realizzare il concetto di Lavoro Sostenibile. Inoltre, rappresenta un riferimento culturale per gli stakeholder interni ed esterni al fine di facilitare la diffusione di principi, valori ed azioni che si ispirano al Manifesto del Lavoro Sostenibile.
Un’informazione giovane per scoprire il mondo: Will Media propone un “attivismo delle idee” per avvicinare le nuove generazioni
di Giacomo Checchin
Educatore abilitato, redattore giornalistico in ambito “education” e formazione, ricercatore.
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cv
Si può sprecare tanto talento?
Affascinato da questa storia, Yuri ne parla a due amici - Sara Furlanetto, studi in giornalismo fotografico, e Giacomo Riccobono, specializzato in marketing - con cui condivide la passione per il viaggio e la fantasia di sperimentarsi, Insieme decidono di progettare una grande spedizione che li porterà in oltre 2 anni – con una interruzione importante a causa del Covid-19 – a percorrere a piedi dalle Alpi Giulie fino a quelle Marittime, e poi verso Sud, lungo la dorsale appenninica, fino alla Sicilia e alla Sardegna, chiudendo un immaginario cerchio. Quasi 8.000 km.
di Giovanni Petrini,
Antonio Romani,
Sara Sampietro
Silvia Vivaldi
Soci di On! Trasformazioni generative
PENSARE OLTRE, PENSARE L’INEDITO
di Ugo Morelli
Psicologo e studioso di scienze cognitive . Insegna Scienze Cognitive Applicate all’Università Federico II di Napoli. Il suo prossimo libro con Vittorio Gallese è “Cosa significa essere umani”, Raffaello Cortina Editore, Milano 2024.
Precisione e immaginazione
Filolao, che sembrerebbe essere stato il principale teorico della scuola pitagorica, attorno al 450 a. C., fonda le proprie osservazioni astronomiche su un paradigma musicale. Keplero, nonostante le geometrizzazioni parmenidee e successive, tentò di ricostruire l’“armonia del mondo” ricavandola dalle velocità planetarie osservate. Tutto ciò potrebbe sembrare molto arcaico in confronto ai risultati raggiunti dai tenaci calcolatori babilonesi che avevano preceduto i greci. Ma risultò anche più creativo, in quanto richiamò effettivamente in vita vasti schemi protostorici di pensiero, combinando precisione e immaginazione. A noi che non siamo più in grado di rappresentarci chiaramente che cosa l’antica Grecia intendesse con la parola musiké, essendo ogni forma di pensiero serio formulata in quel “linguaggio poetico” che era proprio, ad esempio, di Anassimandro, risulta rivoluzionario riconoscere l’interdipendenza e l’integrazione tra poiesis e logos. Musiké non era solo un’esperienza estetica, quale noi la intendiamo, ma un’attività strettamente legata a quanto vi è di poetico e di etico nell’uomo: qualcosa che agisce sull’anima e la trasforma. C’è voluta la ricerca neuroscientifica per aprire le porte al riconoscimento, ancora tutto da approfondire, dei fondamenti naturali dell’esperienza estetica, che ne trasforma il senso e il significato. Da una dimensione solo formale ed esteriore, l’esperienza estetica è finalmente riconosciuta come incarnata e strettamente connessa alla risonanza con gli altri e al mondo, in grado com’è di estendere le possibilità individuali e relazionali in modi e per vie che senza quelle esperienze non si verificherebbero. Se verso il IV secolo a. C., soprattutto con Platone, l’antica musiké tende a suddividersi nelle due forme più moderne, separando poiesis e logos, la ricerca scientifica oggi ci indica una strada per andare oltre il dualismo e accedere a una ricomposizione più che mai necessaria.
Ragione poetica e vulnerabilità
Potremmo chiamare ragione poetica la via per la quale l’unicità di ognuno risuona con la molteplicità della vita. La risonanza implica la vulnerabilità, la disposizione a farsi raggiungere. Sentire è essere vulnerabili. Se sia possibile accreditare un’interpretazione e una prassi relazionale generativa della vulnerabilità è uno dei temi cruciali del nostro tempo. Qualora almeno per certi aspetti lo fosse, avremmo trovato una via in più per avvicinarci alla ragione poetica, a capire come si esprimono le nostre potenzialità, come cioè manifestiamo le nostre forms of vitality (D. Stern, Forms of Vitality, Oxford University Press, Oxford Mass. 2010; ed. it. Raffaello Cortina Editore), ovvero come accada che riusciamo a generare, creandolo, quello che prima non c’era, elaborando l’angoscia che la bellezza del solo concepirlo ci produce (L. Pagliarani, Il coraggio di Venere, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003); come, insomma, facciamo i conti con l’amore e il timore della bellezza (D. Meltzer, W. Mag Harris, Amore e timore della bellezza, Borla, Roma1989). È importante perciò domandarci se nell’intersoggettività umana vi siano contingenze, situazioni, processi, momenti, in cui le relazioni possano essere vantaggiose e emancipative per le persone coinvolte, nel momento stesso in cui si aprono a una certa vulnerabilità e se quest’ultima non abbia a che fare con qualche dimensione costitutiva della relazione stessa, tale da rendere, in fondo, possibile, la stessa relazione. Seppur gli uni agli altri irriducibili, di fatto ci generiamo nelle relazioni intersoggettive, e allora non dovrebbe essere del tutto inutile cercare di comprendere se quella costitutiva accessibilità non sia intimamente connessa a una nostra penetrabilità da parte degli altri, che è accoglienza e violazione allo stesso tempo, e che certo si situa senza soluzioni di continuità con l’estremo della distruttività, che pure dalla vulnerabilità deriva, ma, come si potrebbe tentare di dire, si ferma prima di generare il male e di distruggere, per diventare combinazione generativa di io e altro, dove ognuno di noi è accolto almeno in parte, senza perdersi ed esaurirsi in quella accoglienza, nel ventre cavo dell’affettività altrui. Come musica che ci raggiunge non senza turbare e senza violare in una certa misura il nostro stato emozionale, e che, se fossimo invulnerabili, non troverebbe via per penetrare in noi e fecondarci con la sua fertile armonia, alla stessa maniera nell’articolata e incerta dinamica delle relazioni noi siamo raggiunti dagli altri nell’infinito gioco di autonomia-dipendenza, in quanto apriamo spazi per accoglierli, e in quel vulnus loro entrano per divenire almeno in una certa misura, e magari per un certo tempo, somiglianti a noi. Entrano in parte incontrandoci e in parte ferendoci, in parte confliggendo e in parte cooperando con noi, laddove non si dà, probabilmente, un incontro senza violazione e non si dà una cooperazione senza conflitto. Se per conflitto si intende l’incontro generativo tra differenze e non l’antagonismo e la guerra, come ci pare opportuno intendere (U. Morelli, Il conflitto generativo. La responsabilità del dialogo contro la globalizzazione dell’indifferenza, Città Nuova Editrice, Roma 2014). Nel continuo processo di individuazione del proprio bodily self, ognuno di noi elabora, tra i vincoli e le possibilità dell’alterità costitutiva - attraversando le relazioni che ci precedono e in cui prendiamo forma e ci generiamo - le dinamiche della simulazione incarnata (embodied simulation) che, anticipando e sostenendo i nostri stessi sentimenti e la nostra stessa cognizione, compongono l’evoluzione delle nostre vite (V. Gallese, Bodily Self e schizofrenia, Congresso FIAP 2014, Riva del Garda, 2-5 ottobre). Quel processo di cognizione corporea è il tappeto mobile su cui si muovono le incerte dinamiche del nostro divenire noi stessi e le piccole grandi ferite, insieme alle conferme gratificanti, con cui ci incontriamo nelle relazioni con gli altri, sapendo che le prime e le seconde possono essere emancipative o distruttive per noi, a seconda di come riusciamo ad elaborare la loro ambiguità. Se pensiamo al linguaggio, non è difficile riconoscere come comprenderci significhi dire quasi la stessa cosa. Nel quasi si situa il processo di cooperazione interpretativa (H. R. Jauss, Toward an Aesthetic of Reception, University of Minnesota Press, 1982), che genera i significati condivisi, approssimativi – nel senso dell’avvicinarsi e dell’accomodare le differenze – e provvisori. In quel quasi alberga la vulnerabilità che rende possibile comprendersi, nel duplice senso della vulnerabilità dei significati e dei limiti invalicabili del linguaggio, unitamente alla relativa combinazione e fusione emergente dei significati condivisi. È probabilmente per quelle vie che si definisce il margine generativo presente in ogni contesto e situazione e capace, se trattato con ragione poetica, di generare l’inedito, realizzando una volta ancora una distinzione specie specifica che ci rende umani (V. Gallese, U. Morelli, Cosa significa essere umani? Corpo, cervello e relazione per vivere nel presente; Raffaello Cortina Editore, Milano 2024).
PER LA FRUIZIONE CON IPAD CONSIGLIAMO DI POSIZIONARE
IL DEVICE IN ORIZZONTALE